Schwazer, flashback a passo di marcia

08 Maggio 2016

Dal bronzo di Helsinki 2005 alla "caduta nel vuoto" del 29 luglio 2012. Viaggio nel passato dell'altoatesino che è tornato a gareggiare, e a vincere, nei Campionati Mondiali di marcia a squadre di Roma. 

di Giorgio Cimbrico

Un ritorno così merita lo strumento del flash back, pescando nelle immagini e nei suoni conservati nell’archivio della memoria. Basta un dissolvenza per iniziare il viaggio a ritroso...

“Sta andando forte il vostro tedeschino”, dice Libano Zanolari, vecchio collega della tv della Svizzera Italiana: è il 12 agosto 2005, terzultimo giorno dei Mondiali di Helsinki, l’Italia non compare nel medagliere, è passata da poco l’ora di pranzo e le nuvole che corrono sul vialone a fianco del vecchio stadio organizzano giochi d’ombre e di luce. Per una volta, non piove e infatti più tardi, assistita da dei sempre benigni, Yelena Isinbayeva scavalcherà 5,01, record del mondo. Il tedeschino è Alex Schwazer, altoatesino o sudtirolese (dipende da come si usa la bussola della storia), biondo che porta alla dannata intenzione di definire biondino, così giovane che, considerata la distanza, è facile definire un poppante. La 50 km è iniziata da un paio d’ore: val la pena appoggiare i gomiti a una transenna, aspettare, vedere come sta andando. Passano Sergei Kirdjapkin e Aleksei Vojevodin, russi degli “oblast” di un profondo sud est rispetto a Mosca, e dopo un vuoto che dura un paio di minuti compare il tedeschino che marcia bene e ha il volto di chi non si trova lì per caso. A occhio, metà gara. “Ha tutto il tempo per scoppiare”, dicono quelli che hanno l’abitudine di pensare male o magari applicano soltanto la scienza inesatta della scaramanzia. Invece a rischiare di scoppiare è Vojevodin: il finale è una sofferenza e porta il tedeschino, che non perde un colpo, quasi a guardargli i talloni: terzo, a meno di 30”. Kirdjapkin è molto lontano, quasi 4’ avanti. Sandro Damilano assicura che il vecchio ordine cavalleresco ha trovato il futuro, un lungo futuro: Alex deve ancora compiere 21 anni.

Due anni dopo, quell’estate al nord è lontana: tutti dentro la sauna senza tregua di Osaka dove alle 7 del mattino fa 30/90 che tradotto vuol dire trenta gradi con il novanta di umidità. Va così anche il 1° settembre, il giorno della 50 e della rabbia di Alex che al traguardo si cava di testa il berretto e lo scaglia lontano. Ancora sul podio, ancora terzo, a 45” dalla vittoria (dell’australiano Nathan Deakes) e a 16” dal secondo posto che è di Yohann Diniz, il francese di radici brasiliane che viene da Epernay, una delle capitali dello champagne. “Lui pensa solo al bersaglio grosso”, sorride in quel suo modo da vecchio gatto Damilano senior. 

Il giorno del bersaglio grosso è il 22 agosto 2008. L’estasi di Pino Dordoni sotto la torre di Helsinki, la rabbia sul filo di Abdon Pamich in una Tokyo di nuvole e pioggia, la sicurezza guascona di Alex Schwazer che si liquefa dopo l’ultimo passo delle migliaia impresse su una stuoia pechinese: la fronte che tocca la pista, le lacrime, la corsa allegra, la scalata dei sacconi del salto con l’asta, uno slalom dentro tutte le sue felicità, l’abbraccio con Sandro. Neanche una parola: “Piangevo io, piangeva lui”: il guru di Saluzzo dice che può chiudere qui e naturalmente ci crede solo lui, rimediando affettuose pernacchie. 

Il giorno che nasce, sale: cresce il pulviscolo dorato, il sole, l’azzurro, la siepe di cinesi intorno al rettilineo da un chilometro, l’andante con moto della prima parte, il largo della seconda, il crescendo del finale, anche un poco maestoso, da marcia trionfale, aperto da quel piccolo bicipite che si piega in un gesto da Braccio di Ferro per dire al mondo: “Ho vinto io”: mancano ancora 5 km ed è fatta. Alex fa cadere in amore chi lo conosce, conquista chi lo vede per la prima volta: giovane, biondo, ambizioso, vorace come uno struzzo, duro come il ferro, fortunato per esser nato tra gente dal battito lento (mamma, 29 al minuto), la voglia di agonismo dello zio, Manfred Brunner, azzurro di slittino. Alex di sport ne ha fatti tanti: l’hockey su ghiaccio (“perché dalle mie parti per i ragazzi è come il calcio”), lo sci di fondo, la corsa campestre, il ciclismo, la marcia. Per lui, la scuola è ricreazione alla rovescia, l’occasione per star seduto qualche ora.

La 50 è una storia lunga.

Quando l’ultimo soffio fresco è sparito e il sole comincia a colpire a picco, la domanda è: sarà un bene? “Il caldo gli piace”, mastica Sandro, appoggiato alla transenna: ogni 8’ (tanto durano un’andata e un ritorno) Alex, l’australiano Tallent (sì, lui, quello domato oggi), il russo Nizhegorodov,  il cinese Li rafficano passi. Il russo offre anche morbide, il cinese sta attaccato per miracolo, l’australiano ha il busto appoggiato all’indietro, Alex è sciolto, corretto. “Ma i piedi potrebbero lavorare meglio e sul tronco c’è ancora da lavorare”: Damilano senior è un implacabile. Una gara sempre uguale sino al 35° quando Li perde l’amo che lo legava alla lenza e sprofonda in un mare nero. Denis Nizhegorodov  è il primatista del mondo (un mostruoso 3h34’14”, dalle sue parti, a Cheboksary), viene dalla repubblica di Mordovia che ha l’esclusiva sulla marcia sovietica e russa e che andrà incontro a rovinosi esiti. Jared Tallent, 24 anni come Alex, non lo conosce nessuno: è di Canberra e in quella città giardino non ha difficoltà a marciare.

Il sole ora picchia duro: ombre che battono in ritirata, luce sempre più assoluta su questo agorà olimpico ai piedi del Nido d’Uccello. Il nebulizzatore che spara vapori d’acqua è l’oasi. Sono passate 3 ore e cinque minuti quando Alex lancia l’attacco e se uno pensa a gesti inconsulti, sbaglia genere. E’ solo un lento schiacciare sull’acceleratore perché le energie non possono essere gettate e l’esposizione al giudizio può esser fatale. Alex, ammonito tre volte, nella prima parte. “Era quello che temevo”, mugugna Sandro, ma cartelllni vengono distribuiti anche all’australiano e al russo. Così Alex attacca, poco dopo il 40°, Tallent accusa, Nizhegorodov prova a rispondere ma la resa è lì. Alex è solo ed è in quel momento che mostra i muscoli, che allunga un saluto. Ora è proprio magnifico, lo dice il cronometro: dai 35 ai 40, quando era ancora in compagnia, 22’01”; da solo, penultimo 5000 in 21’21”.

Stadio: una volontaria dice “congratulazioni: il vostro paese sarà felice”: Alex è dentro il lungo boccaporto dalle pareti verdoline. Groppo alla gola. Dordoni se n’è andato e fosse qui avrebbe addosso il suo sorriso astuto per non mostrare la commozione, Pamich è a casa, a Roma, con il suo volto fermo e pietroso. Anche per lui la gloria fu a Oriente, ma Tokyo quel giorno era livida. Qui c’è un bel sole, l’umidità ha battuto in ritirata, si suda felici. Alex fa a pezzi il record olimpico (3h37’09”, 1’20” sotto il tempo di Vyacheslav Ivanenko, a Seul) e “non avesse fatto tutti quei saluti, sarebbe stato da record mondiale”: Damilano il Vecchio è sempre incontentabile. “Un anno di stress: non aveva digerito il terzo posto di Osaka, ne ha portato dentro le tracce per mesi. Ho dovuto tenerlo a freno, niente è stato facile”, Alex arriva, Tallent prende 2’18”. Alex, meglio dei suoi antenati: Pino, 2’10” sul ceko Dolezal, Abdon 19” sull’ombra del britannico Nihill. Nizhegodorov è a 3’05”, lo spagnolo Garcia a 6’59”, il norvegese Tysse a 7’59”. Distacchi da tappa di alta montagna marciata su uno smisurato, piattissimo piazzale.

Il flash back sa per esaurirsi: il giorno della caduta nel vuoto è il 29 luglio 2012. Ora, 8 maggio 2016, eccolo di nuovo. Rapato come un penitente che ha scontato i peccati.

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