In cerca di Gloria

05 Febbraio 2016

La Hooper si racconta: radici ghanesi, parlata veronese, presente americano e sogni a Cinque Cerchi. Storia, e geografia, di una sprinter ossessionata dai dettagli. 

di Anna Chiara Spigarolo

Ventiquattro anni da compiere, Gloria Hooper (Forestale) si racconta sorridendo nella pausa fra l’allenamento del mattino e quello pomeridiano. Classe 1992 come Gianmarco Tamberi, ieri salito con Marco Fassinotti al record italiano indoor di 2,35, l’azzurra è nella mensa dell’IMG Academy di Bradenton (USA) dove si è trasferita nel novembre 2014 per affidarsi a Loren Seagrave. 11.45 sui 100 (2013), 22.92 sui 200 (2015), 53.12 in un 400 corso un po’ per scherzo un anno fa, è stata argento agli EuroJunior 2011 con la staffetta veloce dell'Italia e due volte di bronzo agli Europei under23 del 2013 (200 e 4x100).

Ai Campionati Mondiali di Pechino, dopo otto mesi da quel biglietto solo-andata per la Florida, aveva già fatto vedere dei progressi: 22.99 nella batteria dei 200 e poi 22.92 in semifinale, per rimettere le due lettere “PB” vicino al proprio cognome dopo tre anni. Era il 2012 quando a Helsinki corse in 22.95, conquistandosi, ventenne, la convocazione per la prima Olimpiade della carriera. Ora, quattro anni dopo, quella che si esalta parlando di Rio de Janeiro è una Hooper diversa: sempre perfezionista ma molto più ambiziosa, impegnata a cesellare uno per uno i pezzi per un puzzle lungo duecento metri. A cominciare dalla partenza: ma il 7.32 sui 60 metri corso una settimana fa a Birmingham, in Alabama, suggerisce buone cose su quello che per molto tempo è stato un punto debole. 

Per disegnare la geografia-Hooper si parte dal Ghana. “È il paese di origine dei miei genitori. Non ci sono mai stata, ma vorrei. Mi immagino di arrivare lì e vedere mille visi sconosciuti eppure familiari, facce mai viste in cui ti riconosci, perché sono uguali alla tua.

Vorrei riabbracciare nonna Selina, che ha vissuto per qualche anno con noi in Italia”. Napoli. “Dove i miei genitori si sono conosciuti e innamorati, negli anni Ottanta”. Lugagnano di Sona. “Dove ho vissuto per quasi tutta la vita”. Verona. “La scuola, il Liceo Scientifico Galilei, e l’atletica, al campo Santini”. Liverpool. “Dove ora vivono i miei genitori, entrambi pastori protestanti, e i miei fratelli più piccoli, i due maschi. Le mie due sorelle invece sono a Londra”. Bradenton, Florida. “La mia nuova vita iniziata a novembre 2014 per allenarmi con Loren Seagrave. Nuovo percorso, nuovo gruppo, nuovo metodo. La scelta non è stata difficile, ero un po’ frustrata da una brutta stagione e sono bastati cinque giorni per cambiare vita”.

Una rivoluzione americana? “Tecnicamente no, il succo è sempre quello. La differenza la fa vivere immersi in una struttura che non concede distrazioni, perché ogni dettaglio è studiato per lo sport d’alto livello e ti aiuta a non perdere il focus. La mia quotidianità è scandita dagli allenamenti  in pista e in palestra, dagli appuntamenti con la fisioterapia e con il mental coach. Per me, che sono una terribile perfezionista, vivere così è  meraviglioso, ma immagino che altri possano faticare. Qui vivono molti atleti top, gente che prima avevo visto solo in TV. Io guardo e osservo e imparo”.

La tua più grande conquista. “Forse questo 7.32. Nessuno mi ha mai considerata una partente, mi hanno riferito commenti feroci: ‘Hooper parte come un master per una gara di corsa in montagna’. Questo crono di per sé vuol dire poco, è solo il primo passo, ma… comincio a togliermi i sassolini dalle scarpe”. Prossima gara? “Il 14 febbraio, sempre a Birmingham (Alabama ndr)”. Sempre con le unghie laccate di verde-Forestale o azzurro-Italia. “Ogni particolare è importante! È un modo di pensare… sì, a volte esagero, sono ossessionata dai dettagli”. Farai i Mondiali indoor? “Sono in programma, ma senza ambizioni.

I miei obiettivi sono prettamente tecnici, 60 metri per me sono il primo pezzo dei 200. Mi interessa trovare determinati angoli di spinta e interiorizzarli, è il pezzo del puzzle su cui mi sto concentrando ora”. Rio? “Sono gasatissima! Non vedo l’ora, davvero”.

Fuori dalla pista? “Leggo tantissimo, mi appassionano le ricerche scientifiche. All’Università di Verona ho studiato biotecnologie, ma non mi limito, non so cosa vorrò fare dopo l’atletica. Ora sto leggendo un articolo sull’influenza dell’alimentazione sull’emotività e i processi cerebrali. Per un periodo invece ho letto solo di storia, mi interessano tante cose”.  Cucini? “Mi piace, mischio Italia e Ghana. Le influenze africane però devo limitarle… troppi fritti”. Suoni? “Da piccole io e le mie sorelle cantavamo gospel in chiesa. Io ho studiato chitarra per anni. Da quando sono in Florida ho ripreso, ma sono molto arrugginita. Però continuo ad andare in Chiesa. Non ostento la mia fede, non è necessario. Traspare dal sorriso, dal modo di affrontare la vita, dalla luce che hai negli occhi”. Passioni segrete? “Adoro i puzzle! Ne faccio in continuazione. Paesaggi, animali… in quello di adesso ci sono dei colibrì”. Sei italiana di seconda generazione. “E fortunata, ho ricevuto il passaporto a 16 anni insieme ai miei. Ho iniziato a fare atletica dopo, e ho potuto subito indossare la maglia azzurra. Ma non è così per tutti, per tanti ragazzi è più difficile”.  

Il talento. “Me ne sono accorta a nove anni. Correvo più veloce degli altri, punto. Per lungo tempo ho cercato di sfuggirgli: ero timida, non volevo che gli altri si accorgessero di me, e gli sprint mi mettevano al centro dell’attenzione. Ho scelto la pallavolo, la musica. Poi, a 17 anni, mi sono arresa. Dopo tre mesi al campo (con Renzo Chemello ndr) ero sul podio ai Campionati Italiani Allievi”. E ora? “Ora l’ho accettato, è un dono. Evidentemente era scritto così”. Sogni nel cassetto. “Il mio cassetto straripa di sogni, fra un po’ scoppia!” Si apre in un sorriso dolcissimo “Un pezzetto alla volta, come un puzzle”.

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(foto Colombo/FIDAL)


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