Una storia al giorno

12 Ottobre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

12 ottobre. Nel giorno delle Grande Scoperta, può capitare di imbattersi in un’altra, legata a una decisione presa dalla neonata Repubblica Italiana: fu nel ’46, 67 anni fa che, resi ufficiali i risultati del referendum, Fratelli d’Italia, di Mameli e Novaro, venne adottato come inno nazionale in una via transitoria che divenne perenne. Fuor di retorica, è un patrimonio dell’atletica italiana averlo fatto suonare per la prima volta in un’Olimpiade: era il 2 agosto 1948, a Wembley: le altre sette medaglie della spedizione azzurra vennero conquistate dopo. La prima fu quella di Adolfo Consolini.

Dimostrare che l’Italia fosse viva era toccato proprio a lui, il gigante gentile: il 14 aprile 1946, al Giuriati milanese, in una gara “fredda” (secondo, tal Selmi, con meno di 36 metri), tra le 15,20 e le 15,30 allunga prima a 53,69 e poi a 54,23. E’ la premessa di quel sta per capitare a Oslo, per gli Europei della rinascita e della conta degli assenti, morti e epurati. Luogo ricco di simboli: in Norvegia era stato creato uno dei più odiosi stati-fantoccio, il governo di Quisling; in Norvegia la resistenza si era battuta sfruttando l’arma della difficoltà ambientale. Un viaggio interminabile e periglioso, che ancor oggi viene raccontato con dovizia di particolari e con gran spirito da Carlino Monti, velocista, giornalista, scrittore, milanese di una milanesità ormai perduta: un Dakota americano che porta gli azzurri a Marsiglia e di lì a Copenhagen, prima che una tempesta blocchi a terra e permetta il decollo solo il giorno dopo, quando al Bislett le gare stanno per iniziare.

Consolini vince e sarà il primo dei suoi tre titoli europei, l’annuncio della gara olimpica e londinese sotto una pioggia sottile, la giornata che costringe (provocando un piacere panico) un giovane Brera a stendere un pezzo fluviale: occupa gran parte della prima della Gazzetta e tracima all’interno. Prende la testa Beppone Tosi da Castelletto Ticino (pura razza ligure, sostiene Gioann, al pari di Mario Lanzi), un corazziere che ama il rosso, specie il Ghemme delle sue parti. Risponde Adolfo spedendo il disco un metro esatto più in là, 52,78. All’ultimo turno la pedana è un cerchio di fango: la linea bianca che è confine tra il lancio valido e il nullo è quasi invisibile e la parabola disegnata dall’americano Fortune Gordien sembra dannatamente lunga. La bandierina rossa alzata da un giudice annulla l’attesa di una misurazione che non avverrà. Adolfo e Beppone festeggiano con un fiasco. Ma prima, nello stadio imperiale dominato dalle due torri sparite in una ricostruzione senza pietà, c’è il tempo per commuoversi: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. Ai Giochi è la prima volta.

Meno di tre mesi dopo, all’Arena napoleonica, il campione porterà il record del mondo a 55,33, riprendendosi il vertice e valicando la barriera sfiorata due anni prima da Bob Fitch a Minneapolis. Di Adolfo, Brera fu ammiratore aedo, persino una sorta di manager in quell’estate scandinava del ‘52 seguita ai Giochi di Helsinki (Consolini finì secondo, a poco più di un metro dall’americano Sim Iness) quando i due decisero di andare a battere la scena dei meeting del Nord. Il gigante italiano appariva come un moderno Thor, paziente e gentile, e Brera racconta che in uno di questi borghi affacciati sul mare – più che meeting, sagra paesana o festa di gusto pagano - Adolfo esplose in una botta tremenda e di come lui, novello Sancho Pancha, si dedicò a una misurazione effettuata con il più primitivo dei sistemi: la conta di lunghi passi. Furono sessanta.

Brera conobbe a fondo Adolfo, misurò la sua timidezza, la ritrosia. E proprio nei giorni olimpici di Helsinki, nel bosco di Otaniemi dove sorgeva e sorge il razionalista villaggio in pietra e legno, usato e riusato per due successive edizioni degli Europei e dei Mondiali (i buoni vestiti devono essere utilizzati sino a vedere le trame della stoffa), divenne testimone della corte serrata, simile ad assedio, di Nina Dumbadze, bella georgiana che voleva a tutti i costi quel giovanotto dal profilo di medaglione. Dopo lunghi tentennamenti, la fortezza cadde.

Il resto è una successione di fatti: il terzo titolo europeo, nel ’54; la partecipazione alla terza Olimpiade, a Melbourne, ormai vicino ai 40 anni (sesto, nel giorno del primo asso calato da Al Oerter, l’uomo del poker); il giuramento letto con quella voce sottile, spezzata dall’emozione, nell’Olimpico romano. Adolfo vinse la sua ultima gara sei mesi prima di andarsene. Il ricordo plastico venne affidata allo scultore reatino Bernardino Morsani che, molti anni dopo, avrebbe onorato con una statua il centenario dell’impresa di Dorando Pietri. Il piccolo e il grande uomo, Fratelli d’Italia.

Giorgio Cimbrico



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