Una storia al giorno

10 Settembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

10 settembre. Quel pomeriggio di 53 anni fa due pullman portano alla partenza i 69 partecipanti alla maratona olimpica. Per loro è stata usata la clemenza che non è stata riservata ai marciatori: la partenza è per le 17,30, quando l’ora del sole a picco su Roma è passata. Abebe Bikila non è un favorito, è uno sconosciuto, e di lui, a distanza di un mezzo secolo abbondante, offre una gustosa  testimonianza il maratoneta genovese Silvio De Florentiis, al tempo primatista italiano dell’ora. “Ero molto emozionato. Allora l’ho guardato e mi sono detto: se corrono anche quelli scalzi, c’è posto anche per te, Silvio. Quanto mi sbagliavo”. A questo punto, non rimane che schiacciare il solito bottone, quello della macchina del tempo.

Fu l’aria fredda del mattino che portò la notizia e fu il sergente a comunicarla agli uomini radunati nel cortile: “Wami si è ammalato, non parte. Abebe, tocca a te”. Bikila non disse neanche una parola: mai stato un grande parlatore, lui. Gli spiaceva per Biratu che era più anziano di lui e aveva sognato quell’avventura e la sera, prima che la luce si spegnesse nelle camerate, gliene parlava a bassa voce. Nessuno di loro aveva mai lasciato l’Etiopia e ora la possibilità era distante solo qualche giorno: l’aereo avrebbe sorvolato gli amba e, dopo, avrebbe volato sull’ignoto: chi si era spinto sui confini del Sudan lo aveva descritto come una distesa bianca, battuta dal sole, segnata dalla linea del Nilo che si ispessiva quando a Khartoum riceveva il Nilo azzurro, quello che veniva dall’Etiopia, il loro Nilo. E dopo, ancora ore di volo, e Roma, la capitale del paese che li aveva invasi quando Wami e Abebe erano bambini.

Wami aveva immaginato il viaggio - gliene aveva offerto particolari minuti, inventati, improvvisati, come facevano i cantastorie che chiedevano ospitalità e cibo nei kraal della loro infanzia – e ora piangeva piano, in infermeria: non si manda alla ventura un maratoneta spossato dalla febbre, meglio promuovere una riserva. Abebe era la riserva, neanche giovane, a dar retta ai documenti: nato a Debre Birham, all’interno della tribù Oromo, sull’altopiano, a 130 km da Addis Abeba, nel 1932, due anni dopo l’incoronazione di Ras Tafari Makonnen, Haile Selassie, Re dei Re, 224° discendente di Re Salomone, tre prima dell’attacco dell’Italia che, come diceva l’uomo di Predappio, con l’Etiopia aveva pazientato per quarant’anni. Capre, mucche di cui era facile contare il numero delle costole, terra aspra, avara: arruolarsi era una delle poche possibilità. A 19 anni diventa soldato della Guardia imperiale: la divisa di gala ha una giubba rossa dagli alamari dorati.  Ordine chiuso, marce, disciplina. Non è meno dura che al paese ma c’è la paga, che prende sempre la via di casa.

Abebe corre, ma non è un originale come gli americani iniziatori dell’età del jogging. Corre perché tutti gli etiopi corrono, corre perché è l’unico modo di spostarsi per chi non ha asino o cammello. Gli italiani conquistatori si stupivano nel vederli, infaticabili. La prima svolta è nel ’56, quando ha già 24 anni e dalla Svezia arriva un allenatore dal nome finlandese, Onni Niskanen, ingaggiato dalla Corte per rendere la Guardia un corpo ancora più scelto, ma anche per individuare talenti: lo sport è sempre un bel distintivo da appuntarsi al petto. Niskanen è uno dei primi occidentali a entrare in contatto con una delle popolazioni predisposte – dalla natura e dall’ambiente - alla corsa di lunga lena. Gli allenamenti sono durissimi, su terreni difficili: ad altitudini tra i 2000 e i 3000 metri, il sangue si arricchisce di ossigeno, lo scudo contro la fatica. E’ un doping ambientale, naturale. Abebe progredisce scalando scarpate (una delle sue foto più famose lo offre mentre, in un paesaggio lunare, sembra uscire da un cratere venato dai colori naturali dei minerali), fortificando i piedi dopo aver rinunciato a calzare scarpe, consigliato più dall’allenatore che obbligato dalla carenza di mezzi del gruppo sportivo imperiale. Ma, a parte il consiglio, Niskanen non nutre grande fiducia in Abebe, anche quando ai campionati etiopi gli riesce di batter a sorpresa proprio Biratu.

Il viaggio nel tempo è finito, recapita il viaggiatore ancora a Roma olimpica. Abebe segue il gruppo di testa e una foto lo mostra quasi svogliato mentre le piante vanno a posare sui tiepidi sampietrini: l’andatura è forte ma per lui non è grande fatica seguire il ritmo. Quando la gara entra nel vivo, quando si avvicina il passaggio sulle antiche pietre dell’Appia Antica, rimane in compagnia di un altro atleta nato nell’aria fina di montagna, il marocchino Rhadi ben Abdesselem, anche lui militare al servizio di un re, quello del Marocco, discendente del Profeta e difensore dei fedeli. Rhadi è uno dei favoriti e due giorni prima si è scaldato nei 10000. Mai un’occhiata corre tra di loro. Per domarlo Abebe sceglie un luogo simbolico: l’obelisco di Axum che gli italiani hanno rimosso dalla città santa d’Etiopia e al centro di un interminabile contenzioso tra Roma e Addis Abeba. E’ il momento di un allungo prolungato, asfissiante: nella sera sopraggiunta, illuminata da una fiaccolata, Bikila si presenta sotto l’arco di Costantino dopo 2h15’16”, record mondiale, disturbato solo da chi, malgrado il cordone di sicurezza, riesce a invadere in scooter il percorso. E scalzo, è etiope: su di lui può essere allestita una saga di sentimenti a buon mercato, una catena di rimpianti: non avessimo perduto la guerra e l’impero… Il dato vero e storico è un altro: trentadue anni dopo l’impresa del povero maghrebino Boughera el Oaufi (ma quell’oro risultò francese…), l’Africa si è affacciata, l’Africa degli uomini degli altopiani, rappresentata da un popolo che, a parte le brevi parentesi di una spedizione punitiva britannica e dell’occupazione italiana, è sempre riuscito a mantenere la propria indipendenza.

Abebe, che parla soltanto amarico, attraverso un interprete concede poco più di uno slogan: “Rappresento la mia gente che ha sempre vinto con determinazione e eroismo”. In patria lo attendono imperiali ringraziamenti, il grado di sergente, uno stipendio meno magro e la possibilità concessa di accettare le occasioni che gli piovono addosso. Nel ’61 corre tre maratone (ad Atene, a Osaka e a Kosice) e le vince tutte. Invincibile? Nessuno lo è. La prima sconfitta viene nella primavera del ’63, a Boston, sul durissimo percorso collinare che è diventato calvario e terreno di sconfitta per tanti campioni olimpici: la tradizione negativa verrà spezzata quasi trent’anni dopo da Gelindo Bordin.

A Tokyo manca poco più di un anno: Abebe lo trascorre in parte a nord, nella calda zona della ribellione eritrea: una guerra interminabile per conquistare montagne di pietre. Alle selezioni olimpiche vince in 2h16’, tempo straordinario per il teatro di gara, i 2000 metri abbondanti della capitale. E’ pronto per la sua seconda Olimpiade, la gara che affronta a quaranta giorni da un’operazione di appendicite e che lui sa trasformare in esecuzione di Ron Clarke, l’australiano che sa sfornare record mondiali su tutte le distanze ma che è costretto a subire come un boomerang la sua straordinaria collezione: mai riuscirà a scalare un podio importante. Ron si arrende al ventesimo chilometro, costretto a un ineluttabile scalare di marcia. Abebe è solo nella città uggiosa (i lividi fotogrammi inseriti da Frankenheimer nel “Maratoneta” vengono da quella corsa, non da quella romana), in mezzo ai mastodonti di cemento che lui vede per la prima volta. Non è più scalzo: la Puma gli ha offerto calzature e denaro per indossarle. La lungimiranza è una costante dell’azienda nata dallo scisma all’interno della famiglia Dassler: Puma sono anche le scarpe dorate di Usain Bolt.
La seconda vittoria è schiacciante: oltre quattro minuti sul britannico Basil Heartley. Il tempo, 2h12’11”, è un nuovo record mondiale, realizzato nella gara più spinosa, non su un filante e comodo percorso o in un clima gradevole. Diventa il primo della storia a concedere il bis e la prospettiva offerta da Città del Messico, a 2200 metri dl altezza, non può che rendere agevole la prospettiva del tris. Nella città non ancora assediata da uno smog micidiale Abebe si arrende al 17° chilometro, limitato da un infortunio patito a una gamba nell’avvicinamento ai Giochi: davanti, l’andatura è scandita da un etiope anche più macilento di lui, Mamo Wolde, nuovo eroe nazionale prima di conoscere lunghi anni di carcere per atrocità commesse durante il regime di Menghistu. “Ai Giochi di Monaco di Baviera avrò 40 anni, voglio provare ancora”, confessa Abebe abbandonando per un attimo la sua sfingesca impassibilità e offrendo quell’inglese stentato che ha assorbito nelle sue corse sulle strade del mondo. Non può sapere che il destino è in agguato dietro una curva, sulla strada che risale un amba: la macchina sbanda, finisce in una profonda scarpata, verrà ritrovata molte ore dopo da un contadino che va al lavoro. Dodici ore tra i rottami: la schiena di Abebe è spezzata. A Monaco andrà su una carrozzina, per gareggiare nel tiro con l’arco in quelle che oggi sono chiamate Paralimpiadi. Sul volto, un sorriso dolente. Il 25 ottobre 1973, a 41 anni, muore ed è scontato scrivere che ad ucciderlo sia stata la nostalgia della fatica. Quasi trent’anni dopo, Wolde verrà sepolto accanto a lui, nel cimitero di San Giuseppe di Addis Abeba.

Giorgio Cimbrico



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