Trent'anni fa, Gabriella d'oro

11 Agosto 2014

L'11 agosto del 1984, a Los Angeles, la vittoria olimpica nei 1500 metri della Dorio

di Giorgio Cimbrico

Con quel semplice spostamento di vocale, un anagramma che non merita l’attenzione di un raffinato enigmista come Stefano Bartezzaghi: Gabriella Di Oro. Oro vecchio trent’anni giusti, sempre molto lucente quel che Riccioli Dorio (pardon, d’oro) conquistò al Coliseum, in fondo a una volata che, vista e rivista, continua a provocare qualche scossa cardio-tellurica. La ripresa frontale, poi, con le immagini schiacciate, è un’agonia. Ma prima di esaminare lo stato delle cose, c’è da praticare un altro giochino, imperniato sui piazzamenti, e che già a quel tempo avrebbe evitato qualche patema: a Mosca Gabriella va in finale negli 800 e finisce ottava in fondo a una delle più grandi gare della storia e a Los Angeles è quarta, a 22 centesimi dal podio; sempre a Mosca, nella finale dei 1500 è quarta. Come doveva andare a finire? Come è finita. Se l’8 diventa 4, il 4 diventa 1. Semplice.

Torniamo, finalmente, a quell’11 agosto. Senza russe o ddr per i piedi, e con le cinesi che ancora non hanno gustato le leccornie preparate da Ma Yuren, le avversarie sono le zingare romene portatrici di mille pene, come dice un vecchio adagio. Doina Meline, viso cavallino e capezzoli sempre eretti, moldava di Hudesti, cinque giorni prima ha vinto gli 800 andando a saltare ai 200 finali Gabriella, che aveva optato per una coraggiosa gara di testa. Maricica Puica, capelli stoppa, moldava anche lei ma di Jasi, è reduce da un’impresa molto più fresca: ventiquattro ore prima è diventata campionessa olimpica dei 3000 in fondo alla gara del dramma di Mary Decker-Slaney-Tabb, incespicata su un tocco di Zola Budd e uscita in barella, stravolta dal dolore e annegata nelle lacrime. Sparse anche da gran parte del pubblico che assiste al tonfo di una delle loro atlete-simbolo.

Le due romene sono pericolose finisseuse (finisseur si dice dell’uomo) e così si tratta di spuntar gli artigli con una corsa in progressione. Avvio delle ostilità affidato alla britannica Chris Boxer, con cadenze da slow. Ai 600 finali Gabriella comincia a spargere spezie e peperoncino, Melinte risponde e alla campana sfila davanti ma senza riuscire a scavare buchi profondi. Gabriella le è addosso, la affianca, la salta e all’ingresso del rettilineo d’arrivo è davanti. E qui comincia il martirio, cento metri di tortura, una trama che prevede anche il rientro da dietro di Maricica. L’occhio del fotofinish ne inquadra tre in novanta centesimi: Dorio, Melinte, Puica. Gabriella si rivolge alle tribune e al cielo con un sorriso trasfigurato (chi ha voglia, può cercare in rete o nelle raccolte di Atletica), un cocktail di sofferenza e gioia. Di solito, in questi casi, si ricorre al titolo di una vecchia biografia su Michelangelo: il tormento e l’estasi. Qui c’è qualcosa di più, una specie di linea di confine tra i due sentimenti. Bello.

Nel suo librone sulla storia dei Giochi Olimpici, spesso come l’elenco telefonico di Tokyo prima dell’invenzione dei cellulari, David Wallechinsky sostiene che una delle motivazioni che spinsero Gabriella fu una promessa del marito: se vinci, ti regalo un bagno nel vino. Per ottenere la vera verità, chiedere ai diretti interessati, la famiglia Spigarolo.

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