Mondiale azzurro, alti e bassi da Osaka



Tre medaglie (due argenti con Howe e Di Martino, bronzo con Schwazer), sette finalisti (ai tre già citati, da aggiungere Rubino, Martinez, Claretti, Rosa), trenta punti complessivi (nove in più della sciagurata missione Helsinki), un record italiano assoluto (quello di Howe nel lungo: l’8,47 che ha cancellato l’8,43 di Evangelisti a S. Giovanni Valdarno, vecchio di 20 anni); quindicesimo posto nella classifica a punti (in cui compaiono 66 paesi, poco meno di un terzo dei partecipanti), ventitreesimo nel medagliere (con i tre podi di cui sopra, e in un panorama con ben 46 paesi con almeno una medaglia). Diciamolo subito, e chiaramente, a scanso di equivoci: è un bottino niente male, quello messo insieme dall’Italia ai Mondiali di Osaka. Non da strapparsi i capelli, né da scendere in strada con bandiera e trombetta, è vero. Ma sufficiente, con ogni probabilità, per guardare con un pizzico di ottimismo all’Olimpiade che si avvicina a larghe falcate, e ad un futuro meno fosco di quello teorizzato – come avviene da sempre – dai soliti corvi neri dell’atletica italiana. I dati menzionati in apertura possono servire come punto di partenza per l’analisi della spedizione azzurra, la più contenuta nei numeri di sempre (alla fine, tra rinunce e infortuni della vigilia, 36 atleti convocati, 21 uomini e 15 donne), ma probabilmente una delle più combattive tra quelle viste almeno nell’ultimo decennio. Dati ai quali vanno aggiunte subito poche considerazioni di carattere meno statistico, ma comunque utili per definire – in positivo e in negativo – un quadro esteso. Per iniziare: ha ragione, e da vendere, Nicola Silvaggi, il DT azzurro, quando dice che una delle cose più belle che vengono fuori dal mondiale giapponese, è il tris di podi ottenuto proprio dal trio di azzurri pronosticati (non da lui: da tutti) come possibili medagliati. Un bel 3/3 di gusto baskettaro, che racconta di come la costruzione stagionale di questi atleti (un campione d’Europa, un bronzo mondiale, un argento europeo indoor) sia stata corretta, priva di vizi palesi, al punto da consentire – vedi Di Martino – di assorbire senza scalfitture la sbandata di un infortunio nell’imminenza del grande appuntamento. Un concetto che può essere esteso a tutti quegli azzurri capaci ad Osaka, seppure non di scalare le vette, di far registrare primati personali o prestazioni vicine ad essi (alcuni esempi fuori dalle finali: la splendida Cusma, Obrist, Collio, La Mastra, Reina, Weissteiner). E addirittura anche a quelli come Ivano Brugnetti, giunto ad Osaka in condizioni tali da farlo sentire – a torto – inattaccabile, indiscutibile anche da tecnici e giudici. Dunque, un bel sette pieno (senza esagerare, se no si montano la testa) ai programmatori tecnici, e agli allenatori che hanno curato, giorno dopo giorno, la costruzione di queste performances. E ha ancora ragione, Nicola Silvaggi (a questo punto il caffè potrebbe non bastare per sdebitarsi) nel dire che è anche l’età della maggior parte di medagliati e finalisti, a rendere più bello il risultato: i 22 anni di Schwazer e Howe, i 21 di Rubino, i 24 della Rosa, ma anche i 26 della Claretti. Atleti ed atlete che possono guardare lontano, sognando (meglio: costruendo) un domani di altri, importanti successi. Piace poi sottolineare un dato, invisibile dall’esterno (come a dire: vi dovete fidare) che probabilmente ha un ruolo sul buon 2007 vissuto dalle squadre azzurre: lo spirito nuovo, di coesione, condivisione, reciproco sostegno, collaborazione, ma anche il desiderio di affermazione, di ricerca del risultato, che si è impadronito del Club Italia. Lo ha detto più volte Arese, senza entrare nei particolari, ma a questo probabilmente si riferisce quando dice di aver visto la squadra lottare e comportarsi come si aspetta. Fin qui le note liete. Ma esiste anche il lato oscuro, quello che merita riflessione e, per il futuro, anche qualche correttivo. Un dato per cominciare: Weissteiner a parte, siamo di fatto assenti dalle finali delle corse. E’ un punto incontestabile. I progressi ci sono stati, è vero (ancora Cusma, Obrist, ed altri), ma la strada da percorrere è lunga. E gli alibi non funzionano, se, per esempio, la Spagna e la Francia (nazioni da sempre nostro punto di riferimento, seppure finite dietro di noi nel medagliere) riescono ancora a piazzare i propri uomini e le proprie donne, di tanto in tanto, nel turno decisivo. Anche la maratona non ride: assenti con gli uomini (dove Bourifa, unico partente, non ha completato la gara), possiamo abbozzare un mezzo sorriso solo per la prova della Incerti, confermatasi come migliore carta da giocare per il futuro della specialità (discreta la Toniolo, senza voto Volpato, da giudicare solo in funzione della squadra la Andreucci); in attesa poi del rientro della Genovese e di mamma Console. Tra gli uomini preoccupa soprattutto il futuro: la generazione di Baldini è prossima all’inevitabile tramonto, mentre dietro non si vedono (né intravedono) ricambi. Pechino rappresenterà l’inevitabile capolinea: è chiaro che alcuni scenderanno dal bus, ma chi vi salirà? Lo sprint deve interrogarsi, capire il perché dei suoi balbettii. Positive le gare individuali (anche se un Collio più tranquillo avrebbe potuto centrare la semifinale), insufficiente la staffetta: ansia da prestazione? Chi sa, potrebbe anche darsi. Certo è però che i cambi non sono tutto (USA docet), e che di questo bisognerebbe finalmente convincersi, preoccupandosi soprattutto di correre. Possibilmente forte. Le controprestazioni azzurre al Mondiale sono state soprattutto quelle di Vizzoni e Donato (seppure per quest’ultimo va considerato nel giudizio anche il rientro in gioco dopo un lungo infortunio), mentre tali non possono essere considerate le prove di Legnante (fuori dalla finale per quattro centimetri, tredicesima) e Bani (quattordicesima). Hannes Kirchler si pone probabilmente a metà strada, perché il 60,34 della qualificazione non è proprio una misura negativa, ma, allo stesso tempo, il 62,68 necessario per la finale era alla sua portata. Nella marcia, Marco De Luca e soprattutto – viste le aspettative – Elisa Rigaudo hanno finito la gara anzitempo: per loro, ed i loro tecnici, si impone la riflessione, anche perché Pechino, tra meno di dodici mesi, proporrà condizioni probabilmente anche peggiori di quelle di Osaka. Meritano la sufficienza Barberi, Reina, gli sfortunati Ciotti e Bettinelli, Diego Cafagna (sempre affidabile), Elena Romagnolo. E merita la sufficienza – usciamo dal discorso tecnico – la RAI, che ha fatto per dieci giorni un lavoro straordinario (plauso alla squadra capitanata da Sandro Fioravanti), prima di scivolare sulla buccia di banana Di Martino, “oscurata” dal TG2 nel salto a 2,03 (ma qui dobbiamo distinguere le responsabilità di Rai Sport, nulle, da quelle della Rete, piene). Ricca la copertura mediatica, come testimoniato dalle 186 pagine di rassegna stampa (per forza di cose limitata) della giornata di gare contrassegnata dall’argento di Howe. In definitiva, un bel Mondiale, ricco di prestazioni di livello medio-alto, probabilmente privo dell’acuto capace di tramandarlo ai posteri (tipo il 18,29 di Edwards a Goteborg ‘95), ma certamente capace di accendere la fantasia del pubblico, per l’intensità di alcune sfide (due su tutte: Powell-Gay, e Howe Saladino, celebrate di continuo dalla tv giapponese). Ora, rotta su Pechino. Il countdown olimpico è già iniziato. Marco Sicari stampa@fidal.it Nella bellissima foto di Giancarlo Colombo, l'urlo di Andrew Howe dopo il salto dell'argento a 8,47 (Omega/FIDAL)


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