Maratona nel tempo: Hiroshima 1985

11 Aprile 2015

Trent'anni fa in Giappone le azzurre conquistarono la prima edizione della Coppa del Mondo. Tra ricordi ed indimenticabili emozioni, il racconto di quella lunga trasferta in Oriente.

di Giorgio Cimbrico

Hiroshima, mon amour. Facile sentirlo ancora vivo stringendo tra le dita una vecchia fotografia, sbucata durante radicali lavori casalinghi: il tempo non ha intorbidato i colori né annebbiato i ricordi. Sul maxipodio siamo seduti in tanti, forse in troppi, e finisce che quelle che si vedono meno sono le donne del miracolo d’Oriente, quelle che hanno messo le mani sulla Coppa del Mondo di maratona: Laura Fogli, Rita Marchisio, Maria Curatolo, Emma Scaunich, Alba Milana. A metà aprile saranno trent’anni e in questi casi, cosa viene da dire? Sembra ieri. In alternativa: sembra di essere lontani una galassia.

Di sicuro, siamo tutti invecchiati. Meno Lucio Gigliotti che è sempre uguale. In uno dei suoi viaggi deve aver bazzicato la foresta dove vivono le Amazzoni e scovato la fonte dell’eterna giovinezza. O il Graal. C’erano anche gli uomini, ma in questo gruppo di famiglia in un esterno non ci sono. Orlando Pizzolato era il re in carica di New York, Gelindo Bordin, praticando il senno di poi, prese le misure al dijbutiano Ahmed Salah, Massimo Magnani possedeva già la serietà che non l’ha abbandonato, il Faustini romano era un folletto, il Faustini bresciano il saggio della compagnia.

Trent’anni fa non c’erano i telefonini, internet e tutte le altre diavolerie ad essi collegati. Esisteva ancora l’Unione Sovietica, non era possibile sorvolarla e così, per arrivare in Giappone, era necessario scavalcare il mondo: da Copenhagen si passava sul Polo Nord e si atterrava a Anchorage, Alaska, per un paio d’ore di sosta, come ia tempi delle diligenze. Era l’inizio di aprile ma il pack era sterminato e compatto, non come adesso con gli orsi bianchi disperati e accaldati, e sotto il McKinley navigavano gli iceberg. Per la maggior parte di noi fu anche il primo impatto con il sushi che a bordo veniva servito anche a chi, legato all’ora media europea, avrebbe gradito un cornetto e un caffè. Ma, si sa, i giapponesi sono precisi e implacabili.

In breve, viaggio interminabile perché dopo la fermata ad Anchorage, la tratta verso Tokyo prevedeva altre sette ore abbondanti di volo: da lì, un saltino di un’altra ora per Osaka. Non eravamo ancora arrivati ma finalmente, bolliti come astici, godemmo di una sosta e di una notte in un letto. A cena, prime difficoltà: il colonnello Casciotti, vicepresidente vicario della Fidal che in Giappone era già stato per i Giochi del ’64, non poteva fare a meno del pane e dopo lunghe trattative portarono un mini panino, di quelli molli e lucidi. Uno, e a tavola eravamo in sette. Il giorno dopo, in Shikansen, il treno proiettile, finalmente a Hiroshima. A occhio, dal decollo da Fiumicino erano passate almeno 48 ore.

Due giorni dopo, la gara, preceduta da un ricevimento in municipio in onore degli ospiti stranieri. Aperitivo semplice: enormi bicchieri di whisky giapponese. Crostacei mai visti, pesce crudo, statue di ghiaccio, vino bianco, giapponese anche quello, con il Fuji sull’etichetta. Il sindaco era un omino commosso che regalò a tutti una medaglia con due colombe e il simbolo della città, le rovine dell’osservatorio. Quarant’anni prima era tra quelli che sopravvissero a quanto venne recapitato dall’Enola Gay e dal comandante Paul Tibbett. In albergo, incontro con Kitei-son, il coreano che vinse a Berlino per il Giappone che occupava la sua terra, con Emil Zatopek e con Alain Mimoun. Io, Franco Fava e Ottavio Castellini, molto eccitati: capita quando ci si imbatte nella storia.

Bel percorso, piatto e veloce. I veri problemi vennero provati dalla piccola truppa al seguito. “La gara potete vederla in quella sala: c’è una grande televisione, il tè, il caffè, i biscotti”. “Ma noi abbiamo fatto 20.000 chilometri e vorremmo seguire dal vivo. Ci sono dei pullmini”. “Sono per i fotografi. La gara potete vederla in quella sala: c’è un grande televisione il tè, il caffè, i biscotti”. “Siamo quattro gatti. Fate finta che siamo fotografi”. “La gara potete vederla etc…”. I giapponesi sono flessibili come i rami degli alberi di una foresta pietrificata. E così finimmo nella sala con la grande televisione e gli annunciati generi di conforto, assistemmo allo sviluppo della gara e riemergemmo all’aria aperto quando Laura (Fogli) entrò in pista e la situazione ufficiosa, segnalataci da Giampaolo Lenzi e da Lucio, segnalava che le nostre moschettiere stavano mettendo piedi e mani sulla Coppa del Mondo. Dopo Laura, quarta, e Rita (Marchisio), sesta, tutto divenne molto reale con il dodicesimo posto di Maria (Curatolo), piccola piccola e agli esordi tesserata per un gruppo podistico che si chiamava La casa del rubatà, in torinese il grissino. Italia davanti a Urss e Ddr. Con punti esclamativi.

Il giorno dei dijbutiani, primo e terzo sotto le 2h08’30” (a quel tempo erano prestazioni strabilianti, per di più offerte da sconosciuti o quasi) coincise con quello del record italiano, 2h10’23”, di Orlando, sesto. Era la terza volta, dopo Pippo Cindolo e Gianni Poli, che un maratoneta azzurro spostava il miglior tempo sull’asfalto giapponese e non sarebbe stato l’ultimo: sedici anni dopo, a Otsu, Giacomo Leone avrebbe creato il vuoto di una stagione nel regno di Stefano Baldini. Massimo finì nono a 43” da Pizzolato, e Gelindo, dodicesimo  poco più di 1’ da Orlando, iniziò a preparare un bello scherzo al vicentino: sarebbe stato consumato poco più di un anno dopo, sulla pista del Neckarstadion.

Oltre ad attaccarmi al telefono e ad avvertire l’Ansa e un po’ di giornali di quel che era successo (a quel tempo si provava orgoglio ad essere depositari di qualcosa; oggi i siti lavorano più veloci di Flash l’uomo lampo), un altro mio compito fu quello di riportare in Italia una magnifica cassetta in legno laccato: conteneva un elmo da samurai ed era il regalo che gli organizzatori avevano preparato per Primo Nebiolo, assente per altri impegni. I detector non erano in funzione, la sicurezza era morbida e non ebbi alcun problema a recapitare il sontuoso omaggio che, devo dire la verità, ebbi la tentazione di tenere per me.

Il ritorno si trasformò in un alternarsi di notte, luce (abbagliante n Alaska) e ancora tenebre prima di un atterraggio a Londra alle 7 di mattino di un giorno non definibile. Questa volta eravamo bolliti misti, un carrello intero. Da Parigi a Roma, ultima tappa, brindisi offerto dall’Alitalia, avvertita da Augusto Frasca. Era spumante Azzurra, allora di gran moda e per fortuna finito rapidamente nell’archivio delle cose facilmente dimenticabili.



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