La storia degli Europei: Helsinki 1994

06 Agosto 2014

Ricordi azzurri della rassegna continentale di 10 anni fa in Finlandia

di Giorgio Cimbrico

Gli Europei del ’94 furono tra i più vivaci, e non solo perché l’Italia ne usci fuori nelle zone alte, ottava con otto medaglie. Nell’ala azzurra del Villaggio di Otaniemi, tra abeti, larici, rocce moreniche e edifici razionalisti nati per ospitare gli atleti dei Giochi del ‘52, ne capitarono e se ne udirono di tutti i colori. Si cominciò con una baruffa in sala mensa (a sfondo razzista, ma con quel che sta capitando oggi, quisquilie e pinzillacchere direbbe Totò), si continuò con parole pesanti di Giovanni Evangelisti all’indirizzo del presidente federale e del presunto aspirante premier Pietro Mennnea, ci si inoltrò nella foresta delle polemiche che opposero la tribù degli atleti alla casta dei tecnici e al Gran Sacerdote di quel tempo, Carlo Vittori. E alla fine, dopo scoppi d’ira passati all’archivio dei memorabilia, e non riferibili per l’uso di quello che Paolo Rosi chiamava linguaggio icastico, una specie di soviet azzurro partorì una creatura che i giovani d’oggi non sanno nemmeno cosa sia, un volantino. Le ragazze che all’ingresso del Villaggio controllavano i visitatori, si stupivano nel constatare che ogni mattina i cronisti italiani varcassero le porte di quel grande giardino e così una biondina si spinse a chiedere: “I finlandesi non vengono mai, voi sempre. Come mai?”. Rispondemmo che avevamo una propensione al contatto diretto, personale.

In questo scenario frizzante, i tappi iniziarono a saltare subito con la medaglia d’argento di mini-Maria Curatolo nella maratona, a meno di 40” da Manuelita Machado. Un caro amico, Dino Pistamiglio, salutò l’impresa della piccola siculo-torinese con una formula che nessuno dei presenti ha dimenticato: “L’atletica italiana salvata dalla Cassa del Rubatà”. Rubatà può esser tradotto dal torinese in grissino e la Casa che li produceva dava il nome a un gruppo sportivo attivo nelle non competitive di cui, agli esordi, faceva parte la coraggiosa piccinina.

In realtà l’atletica italiana si salvò ampiamente da sola e finì anche per esprimere gesti nobili che provocarono ammirate reazioni. Naturalmente stiamo parlando di quell’aggancio volante di Francesco Panetta sull’incespicato  Alessandro Lambruschini. “Pare il megafonista che regge Dorando”, disse qualcuno. Con la differenza che il sorretto non ebbe noie e non ricorse il rischio di vedersi sottrarre la vittoria come capitò al povero Pietri. Il compaesano di indro Montanelli, nato dove un tempo si producevano fiammiferi da cucina (altra merce sparita), accese la gara sulla scia del coraggioso laziale Angelo Carosi e la incendiò nel finale. Doppietta e moralmente tripletta: dall’86 i saltafossi d’Italia erano i migliori d’Europa e al mondo avevano davanti solo i saltafossi per eccellenza, i kenyani.

Il giorno della finale degli 800 decidemmo di assestare anche noi un po’ di scintille e varammo una riffa, un concorso a premi sull’esempio della corsa tris. I partecipanti dovevano versare dieci markku, quelli che avevano stampato la fronte alta e il profilo severo di Paavo Nurmi, Toccò a me raccogliere le puntate e per rendere più pingue il montepremi mi spinsi anche in tribuna d’onore dove sedevano Primo Nebiolo e signora. Ovviamente il presidente non aveva un soldo in tasca e fu Giovanna a estrarre dalla borsetta due banconote. Ne avrebbe ricevute indietro molte di più una mezz’ora dopo. Aveva preso l’en-plein: primo Andrea Benvenuti, secondo Vebjorn Rodal, terzo Tomas de Teresa. Magnifico e fragile, il veronese aveva battuto chi, due anni dopo, sarebbe diventato campione olimpico. Lui, capace di recuperare per i Giochi e costretto ad arrendersi in semifinale, avrebbe assistito dalla tribuna di Atlanta al trionfo di Rodal senza tradire in volto il rammarico profondo che conservava dentro di sé.

Ancora ricordi, pezzi di mosaico: l’esordio in azzurro, con medaglia, di Fiona May; la gara coraggiosa di Annarita Sidoti, a un piccolo pugno di secondi dalla marocco-finlandese Sary Essayah e ora impegnata in un testa a testa che ha in palio la vita; il sorriso allegro di Gianni Perricelli, terzo nella 50 km; il bronzo “isolano” di Madonia. Nettis, Marras e Floris, condito da parole di fuoco; il gran bottino della Norvegia (Geir Moen nei 200, Steynar Hoen nel’alto, Trine Hattestad nel giavellotto); gli occhi chiari, pieni di luce del Nord, di irina Privalova, prima nei 100, prima nei 200, e in staffetta al soffio di sei centesimi dalla triplice corona.

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