Giovanni Scavo, un ricordo lungo 60 anni

05 Aprile 2019

Brillante talento del mezzofondo, probabile protagonista ai Giochi di Roma '60, morì a 23 anni in un incidente stradale il 9 aprile del 1959

di Giorgio Cimbrico

“Ci incontrammo per caso a Bari, per una riunione del Comiliter, e lui mi chiese se potevo dargli una mano sui 1500: gli servivano per preparare gli 800 della Pasqua dell’Atleta. 'Certo che ti do una mano', gli risposi: tirai sino ai 1000 e lui vinse in un tempo che mi pare fosse attorno ai 4 minuti. Tre giorni dopo lessi sul giornale che era morto”: è questo il racconto di Giorgio Lo Giudice, coetaneo di Giovanni Scavo, spazzato via a 23 anni, come la sua vecchia Vespa, travolta da un’auto vicino allo Stadio delle Palme, a Palermo, sessant’anni or sono.

“Gli eroi sono tutti giovani e belli”, cantava Francesco Guccini. E chi viene prelevato dal destino dopo pochi, pochissimi anni passati su questa terra finisce per conquistare un’aura speciale, contrappuntata da una selva di “se”, di interrogativi senza risposta, da collocare in dimensioni irraggiungibili se non con la fantasia o l’affetto: sarebbe stato Giovanni Scavo a privare Mario Lanzi di uno storico record italiano degli 800? Avrebbe potuto impensierire Peter Snell e Roger Moens nella finale olimpica di Roma, corsa un anno e mezzo dopo la sua scomparsa? Domande che vengono ripetute da chi del giovane che vide la luce ad Ascoli Piceno, ma di paterna radice siciliana (il padre era un severo colonnello), ha mantenuto un ricordo che si avvicina al culto, come uno dei club di Velletri - località romana dove si era trasferito - che ha associato quel cognome alla ragione sociale e sta per ricordare il sessantesimo di quella vita spezzata.

In tutte le vicende umane e sportive esiste un giorno dei giorni: per Scavo fu il 21 giugno 1957, nello stadio parigino intitolato a un campione caduto nel ’14, nel primo autunno di guerra: Jean Bouin, detto il piccole Ercole di Marsiglia. Alla partenza Giovanni trovò l’ungherese Lajos Szentgali, campione d’Europa tre anni prima al Wankdorf di Berna, e soprattutto il belga Roger Moens che nel ’55, nel Bislett di Oslo, crocevia di limiti storici, in 1:45.7 aveva posto fine, dopo sedici anni, al lungo regno di Rudolf Harbig. Quell’1:46.6 all’Arena di Milano, poco prima che iniziasse la bufera della seconda guerra mondiale (che avrebbe divorato il magnifico sassone) era un tuffo nel futuro, esattamente come l’8,13 di Jesse Owens. Mario Lanzi, solido “ligure” (come amava rimarcare Gianni Brera) nato sulle sponde del Ticino, corse in 1:49 trovando spazio tra i migliori di sempre.

A Parigi Moens chiuse appena al di sopra dell’1:47 davanti a Szentgali, 1:48.9, e a Scavo che in 1:49.2 andò a sfiorare uno dei limiti più nobili dell’atletica azzurra. Quasi quattro mesi dopo, nel meeting di chiusura di stagione all’Olimpico (il 13 ottobre del record mondiale dei 5000, portato da Vladimir Kuts a 13:35.6), Gianni avrebbe fornito una solida conferma: 1:49.3, alle spalle del greco Depastas.

Proprio come Harbig e Lanzi, Scavo possedeva, oltre all’eleganza, una forte capacità di resistenza alla velocità. Lo testimonia il record personale sui 400, 47.2, che centrò l’anno successivo, la stagione che lo vide sfiorare un podio importante: agli Europei, di scena all’Olympiastadion di Stoccolma, quarto nella 4x400, a pochi decimi dalla Svezia di bronzo, in compagnia di Nereo Fossati, Mario Fraschini e Renzo Panciera.

Inserito nella lista dei probabili olimpici, Giovanni aveva lasciato Roma dopo che le Assicurazioni Generali gli avevano garantito un lavoro da ragioniere nella sede di Palermo. Quel giorno era andato a prenotare un posto sul volo per Milano. Per quella Pasqua che non corse.

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