Bordin 60, primo eroe di maratona

02 Aprile 2019

Un ghigno sul volto e quella rimonta epica: compie sessant'anni il vicentino che trionfò ai Giochi di Seul

di Giorgio Cimbrico

Il 2 è il numero buono sulla ruota di Gelindo Bordin: il 2 aprile 1959, sessant’anni giusti, nasce nella vicentina Longare e il 2 ottobre 1988, a Seul, diventa il primo italiano a vincere la maratona olimpica. Un certo movimento “romantico” lo colloca come secondo a centrare l’impresa, riconoscendo il successo - londinese e negato - di Dorando Pietri, che Gelindo andò ad onorare, al fianco di Sara Simeoni e Livio Berruti, quando il monumento al grande carpigiano, opera del maestro Bernardino Morsani, venne svelato. I tre campioni lasciarono l’impronta delle loro mani. E idealmente Bordin lasciò anche quella dei suoi piedi. Comprensibile tra colleghi di fatica.

Così chiamato da suo padre in ricordo di un libro di fiabe, Gelindo avrebbe potuto interpretare la parte del simpatico sulfureo, in grado di formidabili scherzi e di azioni coraggiose. Più che fiabesco, un personaggio degno di un’epica popolare, nello stile di Ruzante, di Rabelais.

Quel ghigno disegnato sul volto, che poteva esser giudicato come sofferto e divertito, era un’arma psicologica che poteva indurre gli avversari a conclusioni sbagliate, a sorprese annichilenti. Il primo a sperimentarlo fu Orlando Pizzolato quando, dopo aver demolito l’aviere gallese Steve Jones, i due veneti procedevano fianco a fianco verso il traguardo del Neckarstadion di Stoccarda e verso la corona europea. Sembrava scontato che Orlando, doppio re di New York in carica – Orlando as Dorando, titolò un giornale dopo il suo primo successo in un giorno di estate indiana - avrebbe allargato i suoi domini. Gelindo lo lasciò a tre secondi e sul volto di Pizzolato balenarono sorpresa e dispetto.

VIDEO | L'ARRIVO VINCENTE DI GELINDO BORDIN A SEUL 1988

Satanica divenne quell’espressione, e stupita quella di Ahmed Saleh, quando la maratona di Seul venne decisa da un sorpasso all’ultimo miglio, in fondo a una ridistribuzione di carte, di ruoli, di piazzamenti dei Mondiali romani di un anno prima. L’immagine del somalo della caldissima Gibuti che guarda a sinistra e non vede nessuno per voltarsi a destra e inquadrare, a tre metri, quel sorriso diabolico e gioioso è finita nella galleria dell’atletica, non solo quella azzurra. L’imprevisto, il clamoroso, il “meraviglioso”, tornando ancora una volta all’epica, sono il miglior cocktail di spezie che possa esser sparso sulla chanson de geste dello sport.

Fu una maratona difficile, corsa in un bozzolo di umidità orientale, sorvegliata da un cordone record di 36.000 poliziotti, tirata a lungo dal piccolo tanzaniano Juma Ikangaa prima che il comando delle operazioni venisse preso dal giapponese Takeyuki Nakayama, da Saleh, dal keniano, di formazione giapponese, Douglas Wakiihuri, campione del mondo e favorito per l’accoppiata di corone dopo Roma ’87. Gelindo, dopo, la chiamò una battaglia che si sviluppò in un lungo finale drammatico, scandito da colpi di scena. La fuga di Saleh e di Nakayama si rivelò fatale per il giapponese che iniziò a boccheggiare al 37°. Nel frattempo il gruppetto di testa, che comprendeva l’altro giapponese Toshihiko Seko, il britannico Charles Spedding e Ikangaa, era andato in pezzi.

A quel punto Bordin, aggrappato al terzo posto, diede l’idea di puntare al bronzo, come a Roma. Ma in quei momenti realizzò che, si fosse astratto dai crampi che iniziavano ad attanagliarlo, avrebbe potuto ripetere la rimonta da dietro che l’aveva portato al podio mondiale. “Ho preso come riferimento la schiena di Wakiihuri – raccontò – e mi accorsi che guadagnavo metro dopo metro. Al 40° lo affiancai e lo passai”. Un miglio alla fine: Saleh, che Bordin aveva incrociato la prima volta nella Coppa del Mondo di Hiroshima 1985, è davanti, una figura sottile e dubbiosa: arranca su quelle gambe sottili, da fenicottero, si volta, avverte che qualcuno lo bracca. Gelindo dà un’occhiata e va, Saleh rompe come un trottatore che ha smarrito il senso del ritmo. “Troppo stanco per essere felice”, sono le prime parole. Troppo felice per essere stanco era Luciano Gigliotti.

Sei mesi dopo Gelindo diede l’addio in diretta tv: era il 1° aprile. Altro ghigno satanico: era tutto uno scherzo, naturalmente. Avrebbe avuto ancora il tempo di metter le mani sulla maratona di Boston (primo campione olimpico a vincere i saliscendi di quella corsa antica e spietata) e su un secondo titolo europeo, nell’afosa Spalato, ancora davanti a un altro azzurro, il bresciano Gianni Poli.

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