Yashenko, l’angelo che trovò il diavolo nella bott



Da dove vieni? “Zaporozje”. Un paesetto… “Veramente ha più di un milione di abitanti”. E regalava uno di quei sorrisi prendingiro concessi, solo molti anni dopo, da un altro genio bellissimo, Marat Safin, quello che, quando vuole, sa usare la racchetta come Mozart usava il pianoforte o il cembalo suo predecessore. Le attrezzature usate da Volodja Yashenko, cosacco, erano minime: piedi, gambe, testa. All’osso anche le caratteristiche: Volodja era perfetto. E biondo e di gentile aspetto come un Manfredi dantesco. E quando nel novembre del ’99 è morto, a poco più di 40 anni, vittima di uno vizi nazionali russi – l’abuso di vodka – tutti abbiamo provato una stretta al cuore: la bellezza sa sfiorire in un improvviso che si inoltra nelle cadenze del requiem.

Brumel azzoppato da un terribile incidente in moto e caduto nel gorgo della depressione e dell’alcol, Yashenko capace di scovare il diavolo nella bottiglia e di decidere di tenerlo al suo fianco, sino alla fine: la storia dei più grandi ventralisti – e cioè dei più grandi saltatori della storia – è una linea d’ombra, è una fuga al canto del miserere, è una Spoon River che nessuno ha voglia di leggere, è la caduta di due Icari con le ali troppo molli o sottoposti a raggi di un sole troppo crudele. E la macchina del tempo, il poco che Volodja ebbe a disposizione, riporta al 12 marzo 1978, al Palasport di Milano, magnifica struttura che nel piazzalone di San Siro era andata ad affiancare lo stadio in un tentativo di agorà sportivo della metropoli ricca, grassa e trionfante, prossima a diventare città da bere. La testimonianza più bella, perché sostenuta da una macchina da presa vecchio stile, rimane quella del professor Luciano Fracchia astigiano, artefice – oltre che collezionista - di infiniti chilometri di pellicola atletica: a 2,27 Yashenko aveva quel che volgarmente chiamiamo cavallo a 2,52 e così, con una considerazione cosparsa da un asettico a posteriori, non causò grande stupore che quella sera varcasse due volte le porte iniziatiche del record del mondo, prima con 2,33, poi con 2,35 confrmando i suoi acuti adolescenziali dell’anno precedente. E un altro grande interprete dello stile che prevedeva l’avvolgimento attorno all’asticella, il ddr Rolf Beilschmidt, non ebbe remore a confessare che chi era in pedana e chi aveva assistito dalla tribuna, aveva potuto ammirare l’uomo – il ragazzo – che si sarebbe spinto ai cancelli del cielo dei  2,40.  Non andò così per chi ebbe vita breve e risultati fulgidi, che fu angelo e vestì se stesso da demone per accelerare l’autodistruzione.

Le ascensioni di Volodja furono il vertice di quella prima volta italiana degli Euroindoor (in realtà, vertice assoluto, incontrastato), di quell’approdo che popolò il Palasport, scomparso meno di sette anni dopo  in un giorno di neve troppo pesante, di un pubblico che oggi sarebbe un’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice,  ove sia nessun lo sa, dice un personaggio di Così fan tutte. Erano anni di atletica rigogliosa, qui e altrove, amata, popolare, il tempo delle tedesche ce portavo sul petto, di solito robusto, il martello e il compasso, di mezzofondisti non naturalizzati ma nati sul solco di una tradizione che poteva essere svizzera, italiana, britannica. Gli Europei indoor erano occasione per veder all’opera meteore o per assistere alla nascita di una parabola. In quei giorni di fine inverno i 3000 furono di Markus Ryffel che, cinque mesi dopo, sulla collina praghese di Hradzcany, ebbe la chance di affiancare la corona più brillante dei 5000, carpita da Venanzio Ortis con l’azione di un falco che scende largo e colpisce diritto.
Quattro anni dopo, stessa arena, stesso pubblico folto, per un’edizione scandita dal 49”59 segnato a colpi di passi violenti da Jarmila Kratochvlova, boema dai muscoli così sviluppati da aprire a facili e larghi sospetti. Un recital, una navigazione in solitario, con assai meno palpiti di una gara di alto dall’andamento assai diverso dalla trama proposta da Volodja: in tre a battersi in un gioco di passi e di discese in pedana, sino alla vittoria di Dietmar Mogenburg - una figura sottile che sarebbe piaciuta allo scultore Albert Giacometti – con una decisa e coraggiosa mano di poker che lasciò con un palmo di naso il fabbro svizzero Roland Dalhauser.

Sarebbero passati dieci anni prima che gli Euroindoor tornassero in Italia, fornendo soddisfazione iena a chi, da quelle parti, aveva sempre sostenuto il ruolo della città come capitale d’inverno dell’atletica italiana e non solo. L’anno colombiano, il 500° della scoperta del Nuovo Mondo ad opera dell’intraprendente navigatore genovese, portò ciò che era stato atteso in un lungo tempo costellato di rassegne tricolori, di incontri della Nazionale, di meeting che i tempo ha lavato e spazzato come una corrente sui ciottoli. La relativa capacità alberghiera fu scavalcata con l’idea delle navi-villaggio andando a rappresentare una novità che in futuro sarebbe stata riproposta da altre realtà organizzative. Era l’anno olimpico e la parata dei nomi che scesero al Palasport (o padiglione fieristico?) di piazzale Kennedy merita una citazione di massa, in forza di quel che avrebbero raccolto allo stadio di Montjuich e nelle stagioni a venire: Natalia Lisovskaya, proveniente da una piccola repubblica al di là degli Urali, trattava il peso come una palla di cannone; Inessa Kravets, dopo stagioni di prestigio nel lungo, stava endendo confidenza con il triplo aperto alle donne; Zhanna Tarnopolskaya muoveva i primi passi (veloci e vincenti) sul rettilineo dei 60 mostrandosi nella prima di una serie di identità: di lì a non molto sarebbe diventa Pintusevich (e avrebbe indossato il giallo e il blu dell’Ucraina) e dopo un’emigrazione in America e una trasformazione – muscoli annessi - nella più acerrima rivale di Marion Jones, si sarebbe trasformata nella signora Blok. Era il momento di transizione dell’Europa post-muro e post-caduta dell’Urss: Igor Kazanov avrebbe rricchito nome e cognome di un esse fnale e avrebbe racolto un paio di titoli per la Lettonia tornata indipendente: l’orso Aleksandr Bagach avrebbe iniziato una lunga avventura a tnte fosche, culminata in squalifiche per doping e persino per l’uso di cavigliere così pesanti da tenerlo ancorato al suolo della pedana. Storie di vie trovate e imboccate, come quella dell’americana Sandra Myers, una piccola Jarmila nazionalizzata dalla Spagna sulla strada di un  profondo - disinvolto, a volte spregiudicato – cambiamento; come quella di Ljudmila Narozhilenko, poi Ljudmila Engquist dopo matrimonio svedese, impelagata in traffici di sostanze dopanti, colpita da cancro al seno, capace di scendere in battaglia contro questo terribile nemico, di scrutarlo con quei suoi chiari, in atteggiamento di sfida.

Nessun dubbio che il momento più alto sia venuto… dall’alto, dal 2,38 di Patrick Sjoberg, con il suo viso eternamente stopicciato. Che tristezza, quattordici anni dopo, lasciare Goteborg dopo il suo arresto per possesso di cocaina.

Giorgio Cimbrico*

(Giornalista del Secolo XIX di Genova)

 



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