Vittori-Mennea: la ricerca della velocità

25 Dicembre 2015

Il maestro e l'allievo: una lunga simbiosi culminata con i massimi traguardi del record del mondo e dell'oro olimpico dei 200 metri. Dal Sudafrica il ricordo di Marcello Fiasconaro.

di Giorgio Cimbrico

Pietro, l’allievo, se n’è andato il primo giorno di primavera; Carlo, il maestro, la vigilia di Natale. In due anni e mezzo la strana, irresistibile coppia si è dissolta, abita e abiterà nei ricordi di chi li ha visti all’opera. I loro piani, i loro obiettivi, i loro contrasti, i loro eroici fuori, il reciproco ruvido affetto. La mascella serrata di Mennea, il volto che sapeva diventare grifagno di Vittori che avrebbe potuto essere un personaggio di Piero Della Francesca, di Ghirlandaio, con quelle pieghe che animavano il viso, sottolineavano i suoi lampi polemici.

“Non avrei mai pensato di dover pronunciare queste parole”, disse Carlo nel giorno della morte di Pietro. E poi partì per Roma, a montar una guardia paterna al feretro di quello strano figlio adottivo, di quell’ostinato che aveva accettato sino in fondo i metodi, i tempi di lavoro massacrante, la ricerca delle risorse più nascoste dentro le fibre, il cervello. Tutto era necessario se la sfida doveva essere sino in fondo, verso l’alto, con l’indice puntato al massimo. Una missione, un’ambizione, un lungo raid.

Quel giorno e anche ieri, nelle sue ultime ore, Carlo deve aver pensato al primo incontro con Pietro, a quello strano colpo di fulmine che lui coprì con il suo condimento preferito, un’ironia che poteva essere acre. Ma qualcosa dentro a quel ragazzo magro, dal volto cubista, dagli occhi pungenti, qualcosa aveva visto e da lì doveva cominciare la ricerca. Perché un allenatore è un esploratore e da lì partì per un viaggio che fu di tenebra e luce, di passione e follia, di lavoro che poteva sublimarsi o risultare solo molto duro, quasi inumano e il sole e gli aranci di Formia non lo fecero più dolce. Le condizioni erano queste, quasi un patto con il diavolo, da firmare non con il sangue, ma con il sudore.

Carlo aveva uno sguardo che penetrava come un raggio laser, come una lente a molti ingrandimenti: “Prima di Montreal, osservavo Pietro da lontano, salendo sino in cima a una tribuna. Per capire che qualcosa non andava”. Lui già sapeva che il progresso si sarebbe interrotto, che Pietro non sarebbe salito sul podio, che sarebbe stato afferrato dalla marea avvolgente della delusione. E quegli stessi occhi, più tardi, dopo altri anni duri, si accesero per il record del mondo e ancor più dopo Mosca e dopo quella rimonta stordente su Allan Wells, scozzese volante: quella dell’80 sarebbe diventata l’estate dell’imbattibilità, della capacità di esprimersi in ogni condizione, nell’afa di Pechino, sotto la pioggia di Bruxelles.

La macchina-uomo era giunta alla perfezione e, diceva Carlo, “fossimo tornati a Città del Messico, Pietro avrebbe corso in 19”50”.

Aveva l’orgoglio che è tipico e normale negli artefici: aveva portato un magro ragazzo che in tanti anni di allenamento crebbe di sette etti davanti a tutti, ai neri americani, agli uomini dell’est, a cominciare dal totemico Valeri Borzov.  E insieme avevano spostato la linea di confine con un paese proibito tracciata da Tommie Smith.

E tutto questo è stato il Vittori che tutti hanno conosciuto, il Vittori di Mennea. Di pari passo, veniva il ricercatore, l’autore di studi e di manuali, l’allenatore di altri azzurri che con lui seppero agganciare e percorrere sentieri importanti: Marcello Fiasconaro, Donato Sabia, Pierfrancesco Pavoni, un lungo elenco di staffette veloci e del miglio.

Nel momento della separazione finale sarebbe facile sbrigarlo con una breve parola di moda: un guru. A lui l’etichetta non piaceva: lui era semplicemente un uomo che sapeva far correre la teoria e la pratica in una simbiosi che raramente è stata applicata. E il campo era il luogo che amava, prediligeva, chiedendo ancora a se stesso, ormai in tarda età, prove di efficienza, precipitandosi all’indietro di sessant’anni, quando ai Giochi avvertì forte il profumo e il sapore di un sentimento che il tempo non ha saputo cancellare. Nell’atletica Carlo Vittori scoprì un mondo e lo percorse sino in fondo. Addio.

IL RICORDO DI FIASCONARO: "MI MANCHERA''' (di Franco Fava) - "Sono profondamente colpito per l'improvvisa scomparsa di Carlo Vittori: un grande uomo e tecnico cui devo molto. E' grazie a lui che sono arrivato al record del mondo degli 800". E' il commento di Marcello Fiasconaro da Città del Capo appena appresa la notizia della morte a 84 anni del tecnico che legò il suo nome alle imprese di Pietro Mennea e della staffetta azzurra. Ma che seguì anche l'italo-sudafricano, che la sera del 27 giugno del 1973 all'Arena di Milano frantumò il primato del mondo degli 800 metri correndo in 1:43.7. "Quell'impresa la studiammo a tavolino già sei mesi prima. Fu una preparazione meticolosa, costruita giorno dopo giorno, senza i suoi consigli non sarei mai arrivato a quel record – ricorda Fiasconaro dal Sudafrica – Ho sempre apprezzato la sua onestà intellettuale, ma anche la severità e la totale dedizione con la quale il “Prof” faceva il suo lavoro. E a molti non piaceva quel suo carattere spigoloso, poco incline ai compromessi. Forse per questo in tanti non gli hanno riconosciuto tutti i meriti, tecnici e umani. Che sono tanti e vanno oltre quelli di essere stato colui che ha plasmato Pietro Mennea. Con Vittori ero rimasto in contatto anche dal Sudafrica. Ci sentivamo al telefono almeno una volta l'anno per gli auguri di Natale. Oggi non potrò chiamarlo, se ne è andato lasciando un gran vuoto. Mi mancherà".

L'ULTIMO SALUTO - I funerali del prof. Carlo Vittori si svolgeranno sabato 26 dicembre alle ore 15.30 presso la Chiesa di Sant'Angelo Magno ad Ascoli Piceno (via Sant'Angelo).

SEGUICI SU: Twitter: @atleticaitalia | Facebook: www.facebook.com/fidal.it




Condividi con
Seguici su: