Una storia al giorno

29 Gennaio 2014

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

29 gennaio. A Paolo Rosi piaceva far vedere che mai perdeva la calma e che dai maestri britannici del rugby qualcosa aveva imparato in fatto di misura, di distacco. Ma non era vero e la prova a suo affettuoso carico è quell'urlo che lanciò - “Venanzio Ortis” - in quella fredda sera praghese quando il furlan infilzò Ryffel e Fedotkin e divenne campione europeo dei 5000. Ad aprile si celebreranno i 90 anni della nascita (per chi ne è stato amico e compagno di avventure e lo considera sempre qui, accanto a noi, Paolo farà 90 anni), e oggi Venanzio detto Nanto ne fa 49, uno dei rami di quella quercia, più che famiglia, che porta i cognomi Ortis, Unfer, Di Centa: la collezione dei cugini primi Manuela e Giorgio è impressionante ma anche Venanzio ci ha messo del suo.

Per un carnico è normale iniziare con lo sci di fondo e infatti Venanzio inizia così. Hanno le loro tradizioni, i loro momenti in cui stare assieme in allegria (dopo la vittoria nella 50 km olimpica a Pragelato, Giorgio raccontò delle sfide con i carri carichi di tronchi) e scivolare sulla neve fa parte di questi ritmi di vita. Sciolta la neve, rimane la pista. Per lui, almeno, andò così. Il ’78 fu la stagione della sua felicità e di chi ammirava quella corsa calligrafica che più tardi verrà offerta da Stefano Mei: dopo il record italiano dei 5000 a Zurigo, la tappa successiva prevedeva un viaggio nella Praga magica e alchemica per Europei che, alla fine, si sarebbero trasformati in una mirabile vigna azzurra coltivata da lui, da Sara, da Pietro. Venanzio iniziò sui 10000 finendo alle spalle, in un mirabile record italiano portato a 27’31”48, del fenicottero finnico Martti Vainio che più tardi sarebbe andato incontro a un triste e imbarazzante finale di partita, e cinque giorni dopo – era il 2 settembre – corse la finale dei 5000 che, nel ricordo, può essere riassunta in quel grido improvviso e strozzato del più sobrio dei commentatori.

Per la vittoria e per la corona non c’era dubbio che la lotta fosse ristretta tra lo svizzero Markus Ryffel e il biondo-stoppa sovietico Aleksandr Fedotkin che, nell’ultimo giro, si proiettarono in un testa a testa, in uno spalla a spalla che quel buonanima di Paolo sottolineò rafficando i nomi dei due in un Ryffel-Fedotkin che martellò l’ultima curva e il rettilineo finale. Dall’ultima inquadratura in campo lungo, Venanzio appariva lontano: si materializzò all’improvviso e al largo, infilando i due che continuavano a battagliare sul filo dei centimetri in un equilibrio tale da costringere i giudici ad assegnare due medaglie d’argento. L’altra, quella pesante, era di Nanto, la prima su lunghe distanze di un azzurro in appuntamenti di spessore. Neanche un dubbio che al tempo gli Europei (che per importanza, valore degli atleti e cadenza quadriennale venivano solo dopo le Olimpiadi, lo fossero. 

Venanzio aveva 23 anni e mezzo e il fato non gli sorrise: tormentato dagli infortuni, riuscì a portare il record italiano sotto i 13’20”, seppe offrire un breve, brillante ritorno nel selvaggio e affascinante 10000 della Coppa del Mondo ‘81 e si arrese a 28 anni. Rimane l’uomo della collina di Strahov, non lontano da dove l’imperatore aveva radunato i più potenti maghi d’Europa.

Giorgio Cimbrico

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