Una storia al giorno

12 Dicembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

12 dicembre. Cinquant’anni fa l’Union Jack viene ammainato e sulla piazza d’armi di Nairobi, il governatore china lo sguardo e Yomo Kenyatta (liberato dal carcere tre anni prima) agita lo scacciamosche di crine di zebra e spalanca il suo sorriso e molti altri lo imitano, mostrando enormi incisivi. E’ il momento della bandiera con lo scudo masai, dell’inno che evoca albe stupefacenti: è nato il Kenya. E tra i King African Rifles che stanno per essere sbandati, presta il suo ultimo presentat’arm Wilson Kiprugut che al paese appena nato sta per regalare la prima medaglia olimpica: capiterà dieci mesi dopo, a Tokyo, in fondo a 800 condotti di testa, con la più commovente delle irrazionalità, prima di essere infilato dal più spietato dei finisseur, l’All Black Peter Snell, piegato anche dal canadese William Crothers. Wilson il suicida salva il bronzo e quattro anni dopo un altro uomo degli antipodi, l’australiano Ralph Doubell, dovrà esplorarsi sino in fondo, ed eguagliare il record del mondo per piegare il soldato che va all’assalto senza un indugio, senza l’ombra di un tatticismo.

Se la primogenitura olimpica spetta a Kiprugut, quella assoluta è di Arere Anentia, terzo nelle 6 miglia ai Giochi del Commonwealth di Cardiff ’58: è l’affacciarsi di una potenza, è il bussare che nel ‘68, a Mexico City, diventerà un rullo di tamburi nella notte. La saga è agli inizi, scandita dalle accelerazioni di Naftali Temu che, dopo aver schiantato Ron Clarke (riverso sul prato, la maschera ad ossigeno a nascondere il volto disfatto dell’australiano che subisce come coltellate le variazioni di ritmo), lascia alle spalle altra Africa, quella etiope di Mamo Wolde, quella araba del tunisino Mohamed Gammoudi. Qualche giorno dopo, tocca ai saltafossi: può esserci distanza più adatta dei 3000 siepi per chi vive in un ambiente che l’uomo non ha stravolto, per chi corre su vene d’argilla rossa, per chi deve evitare spine d’acacia e scavalcare torrenti che la stagione delle piogge rendono tumultuosi e quella secca in distese di sassi?

Sugli ostacoli distribuiti lungo i sette giri e mezzo della specialità che ripropone in pista le difficoltà della corsa campestre, Ben Kogo e Amos Biwott non hanno una tecnica primordiale, non ne hanno affatto. Scavalcano in qualche modo e, atterrati, spingono come disperati verso la successiva barriera. Gli europei, codificatori e dominatori, escono distrutti dal confronto con chi ha dimestichezza ancestrale con il cambio di velocità. Al trionfo messicano manca solo la gemma della corona: la incastona, in fondo ai 1500, il regale Kip Keino sfruttando un gregario di extralusso, Ben Jipcho, per domare Jim Ryun, lasciarlo a tre secondi, spazzando in quei tre minuti e mezzo, sotto un vento divino, i favori del pronostico e gli sforzi di una preparazione che la speranza americana aveva condotto sull’alta sierra. C’è una foto che stabilisce il distacco, ed è lo stesso che corre tra Mercurio e un suo mortale adepto. Ma la loro Africa non è che agli inizi.

Il miglior modo per capire qualcosa dell’Africa che corre è andare in quell’Africa, lasciare Nairobi, provare ad evitare di salire alle colline Ngong per finire nel fascino un po’ estenuato di Karen Blixen, passare sotto l’arco che segna l’Equatore, tornare nel’emisfero nord, saltabeccare tra un fosso e un dosso, giungere sul ciglio della più profonda scarpata del mondo – la Rift Valley – scenderla, trovare una magnifica foresta di alberi degli elefanti (ma gli elefanti sono spariti), risalire, farsi accogliere a Eldoret da giraffe che sembrano messe lì dall’ufficio del turismo, iniziare la ricerca della gente e dei luoghi, salire sino ai 3000 metri di Kapsait traversando piantagioni di caffè, battere in auto i percorsi sassosi o di terra compatta che loro percorrono un giorno dopo l’altro, annotare la loro dieta: polenta grigia, verdura senza conservanti, carne di capra.

E’ stato in quel Kenya, tra il confine con l’Uganda, Eldoret e le colline Nandi che hanno visto la luce generazioni di campioni, capeggiate come un pater familias proprio da Keino che, avuto diritto alla posterità con l’immagine del magnifico assetto di corsa stampato sulla banconota da venti scellini, lassù tiene famiglia patriarcale e produce miele e formaggio come un re pastore. E’ stata una lunga ondata nera che ha recato il talento assoluto e pazzo di Henry Rono e dei suoi sessanta giorni (quattro record del mondo nei 3000, 5000, 10000 e 3000 siepi) che rivoluzionarono il mezzofondo, che ha offerto meteore e stelle molto fisse (Paul Tergat, re dei prati, è l’esempio più convincente), che ha portato alla ribalta campioni di un’eleganza insuperata: Paul Ereng turkana e David Rudisha masai sono stati capaci di scatenare armi travolgenti. E tutto cominciò cinquant’anni fa, a Nairobi, East Africa. Da quel momento, Kenya.

Giorgio Cimbrico

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