Una storia al giorno

25 Ottobre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

25 ottobre. E’ il giorno dei santi Crispino e Crispianiano e così è anche il giorno della battaglia di Azincourt combattuta l’anno del Signore 1415 e dell’orazione di Enrico V. Che poi il giovane re d’Inghilterra l’abbia pronunciata o no, è poco importante: vitale l’abbia scritta William Shakespeare, quasi due secoli dopo. E’ anche l’anniversario della carica e dell’assurdo sacrificio della Brigata Leggera a Balaclava (1854), cantata da Tennyson, dell’inizio della Rivoluzione Russa del ‘17, dell’Asse Roma-Berlino del ‘36.

Un giorno denso che inviterebbe, per una volta, a uscire fuori tema, a varcare i consueti confini del reame vasto dell’atletica non fosse che oggi, quarant’anni fa, ha lasciato questo mondo Abebe Bikila, l’uomo che segnò l’arrivo dell’Africa, il suo risveglio, che commosse, stupì, che si trasformò in un simbolo. Di un Continente, di un gesto, di uno stile di vita che lui inconsciamente finì per evocare. Nella disordinata stanza di Dustin Hoffman, nel magnifico “Il Maratoneta” (1976, di John Schlesinger), c’è un poster bianco e nero di Abebe a Tokyo e spesso il cuore di Ben (Hoffman) batte all’unisono con quello del Grande Etiope: tump, tump, tump. Non resta che provare a ripercorrere qualche tratto dei suoi sentieri.

Fu l’aria fredda del mattino che portò la notizia e fu il sergente a comunicarla agli uomini radunati nel cortile: “Wami si è ammalato, non parte. Abebe, tocca a te”. Bikila non disse neanche una parola: mai stato un grande parlatore. Gli spiaceva per Biratu che era più anziano di lui e aveva sognato quell’avventura e la sera, prima che la luce si spegnesse nelle camerate, gliene parlava a bassa voce. Nessuno di loro aveva mai lasciato l’Etiopia e ora la possibilità era distante qualche giorno: l’aereo avrebbe sorvolato gli Amba e, dopo, avrebbe volato sull’ignoto: chi si era spinto sui confini del Sudan lo aveva descritto come una distesa bianca, battuta dal sole, segnata dalla linea del Nilo che si ispessiva quando a Khartoum riceveva il Nilo azzurro, quello che veniva dall’Etiopia, il loro Nilo. E dopo, ancora ore di volo, e Roma, la capitale del paese che li aveva invasi quando Wami e Abebe erano bambini. Wami aveva immaginato il viaggio - gliene aveva offerto particolari minuti, inventati, improvvisati, come facevano i cantastorie che chiedevano ospitalità e cibo nei kraal della loro infanzia – e ora piangeva piano, in infermeria: non si manda alla ventura un maratoneta spossato dalla febbre, meglio promuovere una riserva. Abebe, una riserva, neanche giovane, a dar retta ai documenti: nato a Debre Birham, all’interno della tribù Oromo, sull’altopiano, a 130 km da Addis Abeba, nel 1932, due anni dopo l’incoronazione di Ras Tafari Makonnen, Haile Selassie, Re dei Re, 224° discendente di Re Salomone, tre prima dell’attacco dell’Italia che, come è noto, con l’Etiopia aveva pazientato quarant’anni. Capre, mucche di cui era facile contare il numero delle costole, terra aspra, avara: arruolarsi era una delle poche possibilità. A 19 anni diventa soldato della Guardia imperiale: la divisa di gala ha una giubba rossa dagli alamari dorati.  Ordine chiuso, marce, disciplina. Non è meno dura che al paese ma c’è la paga, che prende la via di casa.

Abebe corre perché tutti gli etiopi corrono, corre perché è l’unico modo di spostarsi per chi non ha asino o cammello. Gli italiani conquistatori si stupivano nel vederli, infaticabili. La prima svolta è nel ’56, quando ha  24 anni e dalla Svezia arriva un allenatore dal nome finlandese, Onni Niskanen, ingaggiato dalla corte per rendere la Guardia un corpo ancora più scelto, ma anche per individuare talenti: lo sport è un distintivo da appuntarsi al petto. Niskanen è uno dei primi occidentali a entrare in contatto con una delle popolazioni predisposte – dalla natura e dall’ambiente - alla corsa. Gli allenamenti sono durissimi, su terreni difficili: ad altitudini tra i 2000 e i 3000 metri, il sangue si arricchisce di ossigeno, lo scudo contro la fatica. E’ un doping ambientale. Abebe progredisce scalando scarpate (una delle sue foto più famose lo offre mentre, in un paesaggio lunare, sembra uscire da un cratere venato dai colori dei minerali), fortificando i piedi dopo aver rinunciato a calzare scarpe. Ma Niskanen non nutre grande fiducia in Abebe, anche dopo che ai campionati etiopi batte proprio Biratu.

Il 10 settembre 1960 due pullman portano alla partenza i 69 partecipanti alla maratona olimpica. Per loro è stata usata la clemenza che non è stata riservata ai marciatori: la partenza è per le 17,30, quando l’ora del sole a picco su Roma è passata. Abebe non è un favorito, è uno sconosciuto, e di lui offre una gustosa  testimonianza il maratoneta genovese Silvio De Florentiis: “Ero molto emozionato. Allora l’ho guardato e mi sono detto: se corrono anche quelli scalzi, c’è posto anche per te, Silvio. Quanto mi sbagliavo”. Abebe segue il gruppo di testa e una foto lo mostra quasi svogliato mentre le piante vanno a posare sui tiepidi sampietrini: l’andatura è forte ma per lui non è grande fatica seguire il ritmo. Quando la gara entra nel vivo, quando si avvicina il passaggio sulle antiche pietre dell’Appia Antica, rimane in compagnia di un altro atleta nato nell’aria fina di montagna, il marocchino Rhadi ben Abdesselilem, anche lui militare al servizio di un re, quello del Marocco. Rhadi è uno dei favoriti e due giorni prima si è scaldato nei 10000. Mai un’occhiata corre tra di loro. Per domarlo Abebe sceglie un luogo simbolico: l’obelisco di Axum che gli italiani hanno rimosso dalla città santa d’Etiopia. E’ il momento di un allungo prolungato, asfissiante: nella sera illuminata da una fiaccolata, Bikila si presenta sotto l’arco di Costantino dopo 2h15’16”, record mondiale, disturbato solo da chi, malgrado il cordone di sicurezza, riesce a invadere in scooter il percorso. E scalzo, è etiope: su di lui può essere allestita una saga di sentimenti a buon mercato, una catena di rimpianti: non avessimo perduto la guerra e l’Impero… Il dato solido è un altro: trentadue anni dopo l’impresa del maghrebino Boughera el Oaufi (ma quell’oro risultò francese…), l’Africa si è affacciata, l’Africa degli uomini degli altopiani, rappresentata da un popolo che, a parte la breve parentesi dell’occupazione italiana, è sempre riuscito a mantenere l’indipendenza.

Abebe, che parla soltanto amarico, attraverso un interprete concede poco più di un slogan: “Rappresento la mia gente che ha sempre vinto con determinazione e eroismo”. In patria lo attendono imperiali ringraziamenti, il grado di sergente, uno stipendio meno magro e la possibilità di accettare le occasioni che gli piovono addosso. Nel ’61 corre tre maratone (ad Atene, a Osaka e a Kosice) e le vince tutte. La prima sconfitta viene nella primavera del ’63, a Boston, sul durissimo percorso collinare, calvario e terreno di sconfitta per tanti campioni olimpici: la tradizione negativa verrà spezzata trent’anni dopo da Gelindo Bordin.

A Tokyo manca poco più di un anno: Abebe lo trascorre in parte a nord, nella zona calda della ribellione eritrea: una guerra interminabile per conquistare montagne di pietre. Alle selezioni olimpiche vince in 2h16’, tempo straordinario ai 2000 metri abbondanti della capitale. E’ pronto per la sua seconda Olimpiade che affronta a quaranta giorni da un’operazione di appendicite e che lui sa trasformare in esecuzione di Ron Clarke, l’australiano che sa sfornare record mondiali su tutte le distanze ma che è costretto a subire come un boomerang la sua sterminata collezione: mai riuscirà a scalare un podio importante. Ron si arrende al 20° chilometro, costretto a uno scalare di marcia. Abebe è solo nella città uggiosa, tra i mastodonti di cemento che lui vede per la prima volta. Non è più scalzo: la Puma gli ha offerto calzature e denaro per indossarle. La lungimiranza è una costante dell’azienda nata dallo scisma all’interno della famiglia Dassler: Puma sono anche le scarpe dorate di Usain Bolt.

La seconda vittoria è schiacciante: oltre 4’ sul britannico Basil Heartley. Il tempo, 2h12’11”, è un altro record mondiale, firmato nella gara agonisticamente più spinosa, non su un filante e comodo percorso o in un clima gradevole. Diventa il primo della storia capace del bis (l’unico altro sarà il tedesco est Waldemar Cierpinski, a segno a Montreal ’76 e a Mosca ’80) e la prospettiva offerta da Città del Messico, a 2200 metri dl altezza, rende agevole la prospettiva del tris. Ma sull’altopiano Abebe si arrende al 17° chilometro, limitato da un infortunio patito a una gamba nell’avvicinamento ai Giochi: davanti, l’andatura è scandita da un etiope anche più macilento di lui, Mamo Wolde, nuovo eroe nazionale prima di conoscere lunghi anni di carcere per presunte atrocità commesse durante il regime di Menghistu.

“Ai Giochi di Monaco di Baviera avrò 40 anni, ma voglio provare ancora”, confessa Bikila abbandonando per un attimo la sua sfingesca impassibilità e offrendo quell’inglese stentato che ha assorbito sulle strade del mondo. Non può sapere che il destino è in agguato dietro la curva, sulla strada che risale un amba: la macchina sbanda, finisce in una profonda scarpata, verrà ritrovata molte ore dopo da un contadino che va al lavoro. Dodici ore tra i rottami: la schiena di Abebe è spezzata. A Monaco andrà su una carrozzina, per gareggiare nel tiro con l’arco in quelle che oggi sono chiamate Paralimpiadi. Sul volto, un sorriso dolente. Poco più di un anno, muore. Il riabilitato Wolde verrà sepolto accanto a lui, nel cimitero di San Giuseppe di Addis Abeba.

Giorgio Cimbrico



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