Una storia al giorno

18 Ottobre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

18 ottobre. Oggi si vola: 45 anni fa, a Mexico City proprio questo capitò. “Cos’ho fatto?”. “Hai saltato 29 piedi, anche di più”. “Va be’, Ralph, ora salti tu e mi dai un calcio nel culo”. “No, Bob, io così lontano non ci arrivo”. Prima di esser schiacciato da quel che ha appena combinato, di sentire le ginocchia che non tengono, di rischiare il collasso, Bob Beamon è allegramente inconsapevole. Ha appena saltato lungo, così lungo che i giudici hanno deciso di non servirsi del lettore ottico e di servirsi del vecchio nastro misuratore e un certo punto uno che mormora “fantastico, fantastico” gli dice 8,90 e lui, che non mastica il metrico decimale, non capisce e allora chiede lumi a Boston, che gli ha dato una mano in qualificazione quando dopo due nulli stava per uscir fuori e anche per questo primo salto di finale gli ha detto : “Vai e vedi di fare un salto valido”. “E ora, il russo e l’inglese cosa faranno?” si domanda Bob. Il russo è Igor Ter Ovanesian, detto il principe Igor: “I nostri sembrano salti da bambini”. L’inglese è Lynn Davies, il bel gallese che aveva vinto nel vento contrario e nella pedana fradicia di Tokyo: “Sarebbe bene ce ne andassimo tutti a casa”. “Bob, hai distrutto la gara”, dice Ralph.

E tutto questo intrecciarsi di parole, tutto questo dopo, dura molto più di quel suo decollo, di quella parabola altissima, a più di un 1,30 da terra, di quell’atterraggio in cui non un solo centimetro viene buttato: uno pterodattilo che prende terra, un Concorde che tocca la pista. Tutto unico, perfetto, destabilizzante: il record del mondo era 8,35, di Boston e di Ter Ovanesian che un anno prima, stessa pedana, era stato uno dei primi a capire che lì sarebbe avvenuto qualcosa di mostruoso.

E così, quando diventò commissario tecnico dell’Urss e la sorte gli diede quel capolavoro di elasticità che era il suo compaesano di Armenia Robert Emmian, decise di sfruttare i vantaggi della quota e a Tsakhadzor, Caucaso, organizzò lì per lì una garetta e Robert arrivò a 8,86.

Ancora quel giorno sull’altopiano del Messico: si sapeva che Bob poteva fare il colpo perché aveva saltato 8,30 indoor ma poi era rimasto a riposo forzato, sospeso dall’Università del Texas perché si era rifiutato di gareggiare contro Brigham Young: “i mormoni sono razzisti”. Ma nessuno poteva azzardare potesse arrivare sin laggiù, dove finisce la pedana, dove non arriva l’occhio elettronico. Di tante stupite e ammirate cose che vennero scritte, la più ironica testimonianza rimane quella del povero Renato Morino che raccontava di una cena in cui c’era chi sottolineava l’importanza del vento, ancora due metri spaccati a favore naturalmente, chi la rarefazione dell’aria, chi l’atmosfera elettrica offerta dal temporale appeso all’orizzonte, chi la novità e l’efficacia del prodigo tartan, e quel salto infinito diventava sempre più corto, sino a quando la presa di coscienza ebbe la meglio, togliendo di mezzo le cesoie di analisi piccine, limitate. Era stato, come sulla spiaggia di Kitty Hawk, un volo e questo doveva bastare. Per batterlo, sarebbero stati necessari quasi 23 anni, la musa di fuoco che ispirò Mike Powell, la parca che impedì a Carl Lewis di chiudere il suo inseguimento: 8,95 a 8,91.

E appena dieci minuti dopo Beamon, Lee Evans corse i 400 in 43”86 trascinando sotto la barriera anche Larry James, 43”97. Un altro podio a pugni chiusi e mani guantate, ma senza la compunzione, quasi sacrale, di Smith e Carlos, decisivo nel convincere Evans a scendere in pista. “E così alla fine decisi di andare e corsi sino in fondo. Anzi, corsi 401 metri perché sapevo che Larry sarebbe stato pericoloso. Solo che lui corse 395 metri”. E’ la demolizione di un muro, un altro, e la fine della vexata quaestio sulle scarpette a pettine, con 44 chiodi, usate dagli americani nell’avvicinamento ai Giochi, nelle gare in altitudine di Lake Tahoe. A spaccare il quarto di miglio Lee era pronto da tempo.

Giorgio Cimbrico



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