Una storia al giorno

22 Settembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

22 settembre. E’ un giorno che non ha un risultato di spicco, che non propone miti più o meno polverosi, che non ha un protagonista. O meglio, ne ha moltissimi. Il luogo è Sydney, l’anno è il 2000 e, almeno questa volta, andando a rovistare in memorie molto personali, per pura comodità è meglio passare alla prima persona, di solito evitata.

Dunque, sono laggiù da almeno una decina di giorni, seguo la scherma, faccio un’irruzione nel ciclismo ma in realtà conto le ore che dividono dall’inizio dell’atletica. Il 21 settembre sfoglio i giornali e inizio a illuminarmi: in sintesi, i colleghi aussies scrivono che domani è il giorno, che il pubblico che andrà al Parco Olimpico di Auburn aumenterà e aumenterà di brutto, che è necessario organizzarsi per non rischiare ritardi. Così decido. Mi comporterò come un cittadino di Sydney o come un turista sportivo munito di biglietto, mi alzerò di buona o buonissima ora, andrò alla stazione e sarò al mio posto per la prima batteria dei 100.

E così sveglia alle 5,30 e, avendo la fortuna di avere l’albergo a 300 metri dalla Centrale, prima delle 6 sbuco lì davanti e mi trovo di fronte a una turba di quelle che da bambino vedevo nelle incisioni di Gustav Doré per la Divina Commedia di Dante. Un fiume di anime, tutte con visi allegri e sereni. O una mandria senza muggiti. Nella turba – o nella mandria – rallegrata da orchestrine e guidata da volontari simpatici e cordiali (uno dei leit motiv di quei Giochi) finisco anch’io e mi ritrovo nell’atrio della stazione. I treni per Melbourne, per Canberra, per Brisbane sono spariti: soltanto locali per il Parco Olimpico che partono uno dopo l’altro, sino a formare un vermone come quelli che apparivano in Dune. Si va pianino, quasi a passo d’uomo, e prima delle 7 si arriva ad Auburn.

Centro stampa, liste di partenza, caffé, sigaretta (sulla veranda, naturalmente) prima di avviarsi verso lo stadio. Dal catinone, che a primavera aveva richiamato 100.000 per Australia-Nuova Zelanda, arriva un ronzio che sembra quello delle vespe e dei tafani che vanno a pizzicare la pelle spessa degli elefanti. Sarà l’impianto di aerazione, dico tra me; sarà l’impianto di diffusione, continuo il dialogo con me stesso, alla Marca Aurelio, e poi sbuco dal boccaporto e vedo lo stadio pieno, cioè non proprio pieno, ma 105.000 spettatori prima ancora che in campo siano entrati i giudici e lo starter smuove l’affetto di chi all’atletica ha dedicato, in pensieri, idee, affetto e piccole opere, una buona parte della propria vita. E la prima persona che viene in mente è Primo Nebiolo, scomparso da dieci mesi, che, fosse stato ancora lì, avrebbe avuto un attacco di ego smisurato, di orgoglio e passione. E tutti ricordano con facilità i 112.524 della serata dell’apoteosi di Cathy Freeman e del furibondo duello tra Gebre e Tergat, ma quei 105.000 per le batterie dei 100 e le qualificazioni del peso rimangono qualcosa di unico, di commovente, di indimenticabile.

La sera io e qualche amico ci ritrovammo in un’identica turba e calcolammo che saremmo arrivati in centro a notte alta, mettendo in conto di andare a letto senza cena. Dopo mezz’ora eravamo a Sydney. I binari, contrariamente a quanto cantava Claudio Villa, non sono né tristi né solitari. Chi ha ambizioni olimpiche, annoti.

Giorgio Cimbrico



Condividi con
Seguici su: