Una storia al giorno

19 Settembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

19 settembre. Vengono al mondo lo stesso giorno del 1922, questo. Emil a Koprivnice, Dana a Karvina, la regione è la Moravia-Slesia, a componente ceka, polacca, tedesca. Insieme stabiliranno un record che nessun nucleo famigliare potrà mai minacciare: quattro medaglie d’oro in un’Olimpiade, a Helsinki ‘52. E uno a fianco dell’altra saranno i testimoni di uno dei matrimoni più caldi della Guerra Fredda, celebrato a Praga: Olga Fikotova diventava la signora Connolly. Zatopek-Zapotkova o, per usare il nome di Dana da nubile, Zatopek-Ingrova. Un marchio nobile, unico.

Non esiste una foto di Emil che abbraccia la moglie dopo il terzo oro di famiglia, quello di Dana: la maratona doveva ancora essere corsa. “Non ebbi il coraggio di assistere alla gara: tomai al Villaggio e accesi la radio”. Fu una lunga attesa nella foresta di Otaniemi. Al sesto lancio la sovietica Aleksandra Choudina varcò di un centimetro i 50 metri. Non bastarono, Dana si era spinta 46 cm più in là, firmando un nuovo record olimpico. Era ricordando quei momenti che Emil amava regalare un ingenuo disegno: il suo autografo, il suo indirizzo di Praga, un omino che correva e una donnina che lo inseguiva brandendo un giavellotto. Il Socrate della corsa e la sua Santippe.

Nato quando la Cecoslovacchia era appena nata dalle ceneri dell’impero asburgico, giovane operaio in una fabbrica di scarpe quando la sua terra divenne proprietà del Reich, Emil assiste agli ultimi combattimenti e alla nascita della Repubblica Popolare. Ne diventerà un simbolo scalando la gerarchia militare di grado in grado, come i campioni della grande e incompiuta Ungheria: capitano, maggiore, colonnello. E quando i successi sportivi saranno lontani, verrà l’ora di fremiti di libertà, di adesione al gruppo dei dissidenti,  uomini che sognavano un socialismo dal volto umano, della firma sul manifesto delle 2000 parole,  prima di piegarsi alla resa dell’autocritica dopo essersi visto spogliare di tutto ciò che aveva ricevuto. Anni difficili: il lavoro duro e pericoloso in una miniera di uranio quando, nel dopo Dubcek, chi si ostinava a pensare, veniva purgato. Non era un gulag, ma una somiglianza c’era.

E anche quando narrava i suoi anni di cani, Emil aveva il volto sereno di chi confessava di aver vissuto, da vittorioso, da sconfitto, da invitto che riusciva a respingere i morsi della sofferenza: li provò sull’infinita bollente avenue di Melbourne, quando Alain Mimoun ebbe finalmente la meglio e lo attese sul traguardo, per abbracciarlo. Era uno sport di amici, quello, di inseparabili. Trentatre anni dopo ebbero la possibilità di abbracciarsi ancora, di snocciolare per intero il rosario degli aneddoti: ospiti d’onore alla prima coppa del modo di maratona a Hiroshima. Emil era più riservato, Alain vulcanico. Firmava autografi a raffica: Mimoun j’espere in Dieu. Una firma e una norma di vita.

Qualcuno ha scritto: se Nurmi è stato l’interprete di una moderna chanson de geste, Zatopek ha interpretato il ruolo di esploratore di nuovi confini in un’età lontana ma più vicina alla nostra, ancora percepibile come cronaca, non come leggenda. Furono i confini che attraversò in allenamenti feroci (una media di 25 chilometri al giorno) e solitari (il suo paese non aveva una tradizione nelle gare di lunga lena), su terreni difficili, accidentati, calzando scarpe da montagna o scarponi militari, a permettergli di portare alla luce una teoria semplice, trasformandolo nel copernicano delle lunghe distanze: “Se mi alleno in condizioni estreme, la gara rappresenterà un momento agevole”. Ma le sofferenze provate in quei martiri volontari erano rimaste sul suo volto: correva contorto, lontanissimo da qualsiasi calligrafia, strabuzzando gli occhi, facendo guizzare la lingua dalle fauci e oltre il confine delle labbra. Bruttissimo, efficace.

Emil sbuca da quella “Cortina di Ferro eretta da Stettino a Trieste” (le parole sono di Winston Churchill, pronunciate in un discorso di Fulton, Missouri) e irrompe sulle Olimpiadi di Londra ’48, i primi Giochi dopo la bufera, austeri. Senza sovietici e, in nome del “guai ai vinti”, preclusi a tedeschi e giapponesi. Gli italiani, cobelligeranti negli ultimi due anni del conflitto, ci sono. Vince i 10000 alla terza esperienza sulla distanza, è il primo, nella storia dei Giochi, a scendere, anche se solo per un soffio, sotto i 30’ ed è già vicino alla doppietta sino a quel momento preda soltanto di Hannes Kolehmainen: secondo sui 5000, alle spalle del belga Gaston Reiff, uno che ballerà poche estati. Tra il ’49 e il ’51 mette le mani su due titoli continentali e firma otto dei diciotto record mondiali della sua vita di corsa: l’acuto è nell’agosto del ’50 a Turku, in casa dei vecchi padroni finlandesi, nella città natale di Nurmi, quando porta a 29’02”6 il mondiale dei 10000. E sarà a Helsinki, un anno dopo, a tentare e a riuscire nell’impresa che nessuno riuscirà a uguagliare, il Grande Slam della fatica: 5000, 10000, maratona.

Uomo cavallo, uomo locomotiva (per via di una motrice ceka alla quale, in clima di celebrazioni, viene dato il suo nome), bruciatore di chilometri: i nomignoli si sprecano per questo spelacchiato moravo sempre pronto a scatenare la battaglia come se lo sforzo lo attraversasse come una brezza lieve. A Helsinki andò trentenne, fresco di matrimonio (civile) con Dana. Le quattro fatiche di Emil iniziarono il 20 luglio 1952 con la finale diretta dei 10000. Il primo capitolo non riserva molte cose da raccontare. Andò via dopo sei giri assestando distacchi ciclistici: Mimoun a 16”, Anufryev sovietico a 30”. Chi (il finlandese Posti, il britannico Sando, lo svedese Nystrom)  seppe seguirlo a debita distanza raccolse un pregevole approdo sotto i 30’. Il  22 luglio la formalità delle batterie dei 5000 e due giorni dopo la finale, lanciata su ritmi violenti dal tedesco Schade, rilevato di quando in quando da Zatopek. La corsa visse il suo momento più alto e drammatico dopo la campana: l’attacco improvviso del giovane britannico Chris Chataway sorprese Emil che perse cinque metri riuscendo a tornare sotto all’ultima curva. A quel punto Chataway cadde inciampando nel cordolo, Emil diede lo strattone decisivo seguito da Mimoun e da Schade che trascinò a tempi di rilievo. Un finale così drammatico non si vedeva a Giochi dal tempo del confronto, a Stoccolma 1912, tra Kohlemainen e Jean Bouin, il piccolo  e robusto francese caduto sul fronte occidentale nel primo autunno di guerra. Ma con un elemento nuovo: il 58”1 del ceko sull’ultimo giro. Era nato un nuovo mezzofondo e il fenomeno aveva visto la luce proprio nella terra dei grandi iniziatori, nei Giochi che avevano avuto il vecchio Nurmi come ultimo tedoforo.

Esiste una foto di questa finale indimenticabile, drammatica come un grande quadro, spietata come sanno esserlo solo le grandi istantanee: tutti e tre gli uomini che si stanno giocando le medaglie hanno la bocca spalancata e Chataway caduto è una macchia bianca che appena si intuisce . E di foto ne esiste un’altra: stretta in un modesto impermeabiluccio (un’estata agra e fredda fu quella offerta da Suomi), Dana sta per stampare un bacio sulla bocca di Emil. E questa è stata scattata il 27 luglio dopo che lui ha deciso di correre anche la maratona, la sua prima maratona, e se lui corre è per vincere, per ricevere dai 60.000 la scansione ammirata del suo nome: “Zatopek, Zatopek”, 2h23’03”, due minuti e mezzo sull’argentino Reinaldo Gorno che aveva tentato di rinverdire la tradizione tracciata da Juan Carlos Zabala e, quattro anni prima, da Delfo Cabrera. Dana gli è sopravvissuta, ha allenato in giro per il mondo e ora ha superato i 90.

Giorgio Cimbrico



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