Un giorno, un'impresa

29 Maggio 2013

Appuntamento quotidiano con le storie dell'atletica

29 maggio. Con il disco i russi – meravigliosi martellisti, grandi giavellottisti, specie quelli di origine baltica, eccellenti pesisti - non hanno mai avuto grande dimestichezza: un record mondiale, 61,64, di Vladimir Trusenyov nel ’62, spazzato via in meno di un mese da Al Oerter, ed era tutto. Sino a esattamente trent’anni fa quando, in un trascurabile campionato moscovita, allo stadio Lenin, Yuri Eduardovich Dumchev si spinge all’improvviso a 71,86. Ufficialmente, 70 centimetri di progresso su quanto Wolfgang Schmidt, una specie di Robert Redford XXXL, aveva ottenuto otto anni prima in una circostanza altrettanto fredda: un test berlinese per lanciatori, con il secondo capace di lanciare appena al di là dei 50. Ma questa è una prerogativa degli adepti dell’antico esercizio spesso alla ricerca di luoghi favorevoli, dove Eolo soffi impetuoso, possibilmente in direzione contraria al lancio: riuscire a spingere il disco in quota significa farlo rimbalzare sugli aerei flutti, come nel gioco balneare così praticato.

In realtà qualcuno aveva lanciato più lontano di Dumchev: Ben Plucknett, una specie di grizzly, si era spinto sino a 72,34 due anni prima, in una sorta di campionato mondiale organizzato nell’ambito del Dn Galan di Stoccolma al quale risultarono presenti tutti i migliori, da Schmidt a Imrich Bugar, da John Powell a Mac Wilkins. Il record venne accettato dalla federazione americana, al tempo ancora AAU, ma non dalla Iaaf che aveva già respinto il 71,20 che Plucknett aveva centrato nella ventosa Modesto due mesi prima. In gennaio l’americano era risultato positivo ai Giochi Panpacifici in Nuova Zelanda.

Dumchev non era un signor nessuno: quinto a Mosca ’80, nella gara vinta a sorpresa – e non senza qualche polemica e accusa di furto – dallo sconosciuto Viktor Rashhupkin per una breve incollatura, 26 centimetri, sl ceko Bugar, sarebbe poi finito quarto a Seul scavalcato negli ultimi due turni dal sovietico/lituano Romas Ubartas e dal tedesco Rolf Danneberg. L’oro, con un record olimpico portato a 68,82, fu di Juergen Schiul che due anni prima aveva spazzato il record del russo con un 74,08 che ha ormai superato abbondantemente il quarto di secolo di vita.

Per il suo mostruoso exploit il Ddr aveva scelto lo Jahn Stadion di Neubrandenburg, una specie di galleria del vento che avrebbe poi spinto il piccolo disco della mentuta Gabriele Reinsch. Per gli amanti della curiosità, Schult non fornì una serie da ricordare: 67,20, due nulli, l’interminabile record del mondo, un altro nullo e una rinuncia dopo essersi dichiarato appagato.  Dumchev – picco raggiunto all’ultimo tentativo - era stato più regolare.

Giorgio Cimbrico



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