Torino e le indoor, un tuffo nella storia



La mattina del 18 marzo 1987 Sergei Bubka si alzò di buon'ora, finì sotto la doccia, scese alla concierge del Jolly Ambasciatori di corso Vittorio, domandò dove potesse trovare un negozio di giocattoli, superò l'incrocio con corso Vinzaglio, si inoltrò nei portici, tornò un'ora dopo, con un voluminoso pacco: conteneva i doni per Vasili junior. Il primogenito porta il nome del fratello, con il Sergei degli esordi interprete di un esercizio che un bello spirito britannico battezzò lo show dei Flying Bubka Brothers. La sera precedente, a meno di quattro giorni dall'esordio della primavera, Sergei aveva chiuso l'inverno del suo ennesimo contento con uno strano, singolare, unico, indimenticabile record del mondo, 5,97 al Palazzo a Vela, ospite d'onore del Festival del Cinema Sportivo: quasi un a solo, un picco, un improvviso dell'alma avrebbe detto Eugene Ionesco, maestro dell'assurdo prendendo in esame un acuto molto reale, degno dell'eterno tenore di Voroshilovgrad (oggi, Lugansk: i nomi dei marescialli e dei dirigenti del tempo di Stalin sono stati cancellati...) che, per una volta, decise di abbandonare le grandi rappresentazioni per cantare un lieder assoluto senza neppur l'accompagnamento di un pianoforte in sottofondo. Non è necessaria una spiccata capacità di analisi per osservare che l'aria del Viei Piemunt è sempre servita a schiarire la voce del Grande Interprete: sette anni dopo, il tetto del 6,14 a Sestriere, superato solo da un 6,15 al coperto, strappato nella Donetsk che lo ospitò fanciullo e giovane apprendista nell'arte dell'arrampicata.

Il record mondiale di Bubka, salutato da un così limitato uditorio da meritare l'etichetta di impresa da camera, voluto da Primo Nebiolo (ovviamente presente nel parterre), rimane un formidabile riferimento, la pietra miliare dell'atletica torinese sotto il tetto ardito costruito per Torino '61, rispettato, nella profonda riforma architettonica olimpica per i Giochi invernali 2006, da Gae Aulenti. Sergei scalzò via, relegandolo a un secondo posto tuttora occupato, il 20"52 firmato, dentro la cornice del record del mondo, da Stefano Tilli: era il 21 febbraio 1985, data di scadenza per un'altra impresa in solitario, il 20"73 di Pietro Mennea in una nevosa domenica genovese, nell'anno (l'83) che avrebbe spedito il barlettano dentro l'ultima grande finale della sua vita, quella dei primi mondiali di Helsinki. Due anni dopo, il trampolino ondeggiante di Lievin avrebbe privato della corona lo sprinter romano e aperto una nuova fantasmagorica strada agli interpreti del vertiginoso giro di pista, lasciando dubbio sulla liceità dell'uso di una pista che frusta via, che diventa arco. Più tardi Frankie Fredericks sarebbe diventato dardo, facendosi fiondare sotto i 20".

Spulciare i testi e saltabeccare nella memoria: significa ricordare le bordate di Ulf Timmermann e di Alessandro Andrei: 21,76 per il tedescone proprio all'inizio dell'anno (l'89) che avrebbe decretato la morte della Ddr; 21,54 (e record italiano) per il colosso di Scandicci alle prime battute di una stagione (l'87) che l'avrebbe visto bombardare il prato di Viareggio sino al record del mondo a ridosso del muro dei 23 metri. Fragorosamente favorito, avrebbe finito per arrendersi, all'Olimpico, a Werner Gunthoer, cannone elvetico degno della fabbrica di Oerlikon. La recerche prosegue, porta a rivedere un mare di volti, ad accarezzare vecchi e dolci ricordi: uno è legato a uno Stefano Mei tenero e bello nei suoi 19 anni, capace di correre i 3000 in 8'06"91, cifra impressionante per chi doveva subire dalla ristrettezza delle curve, dalla brevità dei rettilinei, attentati alla calligrafia, all'efficacia.

I campionati italiani e gli incontri della Nazionale sono leit motiv in quegli inverni non ancora minacciati dal cambiamento di clima: spesso, quando cessavano le ostilità e veniva dettata l'ultima riga a giornali che rimanevano aperti per l'atletica (tre punti esclamativi, oggi, sono d'obbligo) e ci si dirigeva verso l'uscita, la riva del Po era bianca di neve o di diaccia brina, l'aria feriva ed era tutto un affrettarsi verso Urbani, il ristorante eletto a quartier generale da Nebiolo e dai suoi fidi. Lo era da tempo, a ogni 2 giugno mandato sulla terra quando Torino ospitava la meglio gioventù dell'atletica universitaria. Lo era diventato anche in dimensione invernale, da quando la città del Presidente aveva accolto una pista più che mai necessaria dopo la morte per crollo del Palasport milanese mai più resuscitato, ed era in quelle sere che scavallavano nella notte (oh currite noctis equi, diceva Christopher Marlowe nel suo Doctor Faustus) che potevano esser ripercorsi gli acuti e le defaillances (più i primi che le seconde) riservati dalle sfide con Polonia, Jugoslavia, Spagna, Francia, dalle inevitabili sconfitte accusate contro la Germania Democratica e soprattutto contro l'Unione Sovietica: in quegli anni dai russi veniva proposto, nelle vesti di ct, Igor Ter Ovanesan detto il Principe Igor, sorta di sosia di Walter Matthau, simpatico come il compagno (in tanti film) di Jack Lemmon, pronto alla confidenza, al pettegolezzo. Fu proprio Igor, in un soggiorno torinese, a raccontare di quello strepitoso volo di Robert Emmian nell'aria fina e caucasica di Tzakhadzor, lungo abbastanza (8,86) per scalfire l'inviolabilità scandita a Mexico City da Bob Beamon. "Quel giorno Robert saltava e così ho chiamato i giudici". Ecco, oggi quella sorta di confessione regalata con un sorriso sottile avrebbe scatenato la polemica, lo scandalo, e invece fu accolta per quello che era, un segno di intimità, il riconoscimento dell'appartenenza alla stessa tribù.

Gli Europei appesi al domani vicino, primo grande appuntamento proposto dal governo Arese, non avranno come scenario il Palazzo a Vela, ma l'Oval del Lingotto, il palazzone della sfida sul ghiaccio bollente della velocità estrema tra Italia, Olanda e Norvegia ai Giochi invernali di qusi tre anni fa, dei trionfi di Enrico Fabris e, sempre in tema di lame - da impugnare, non da agganciare sotto i piedi -, del successo mondiale di Margherita Granbassi su Valentina Vezzali sempre in quell'anno, il 2006, che propose, regalò e affermò un rinascimento della città. E' un bel trasformista, l'Oval, proprio come il Brachetti torinese erede di Fregoli: le città d'Europa sono così, antiche e sorprendenti. Capaci di rinnovarsi senza ricorrere a imbarazzanti lifting.

Giorgio Cimbrico*

(Giornalista del Secolo XIX di Genova)




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