Tokyo 1964: i 200 di Berruti e Ottolina

17 Ottobre 2014

50 anni fa i due velocisti azzurri in finale Giochi Olimpici: Berruti arrivò quinto e Ottolina ottavo, oro allo statunitense Henry Carr

di Giorgio Cimbrico

Eddy Ottoz organizzava scherzi, a volte anche atroci, era irriverente, cavalcava una moto, viveva dentro una leggerezza che oggi, come un vecchio romanzo di Arthur Conad Doyle, è un mondo perduto. Sergio Ottolina, anche. Tutti e due, accomunati da quella prima sillaba, raggiunti e passati i 70, non sono cambiati, interpreti di uno sport, di un’atletica spariti e mutati nei meandri del tempo. Domanda: perché Ottolina sbuca dalle pieghe dei ricordi? Perché il 17 ottobre saranno 50 anni dai 200 di Tokyo, quella dei due italiani in finale. Capitò solo un’altra volta ed era un Mondiale: Helsinki ’83, Pietro Mennea, all’ultimo hurrah, e Carlo Simionato.

Tokyo, la tradizione che stava per essere accantonata della terra rossa (che in quei giorni era sempre bagnaticcia) e la novità delle finali a otto, le prime della storia- L’ordine d’arrivo dice che il successore di Livio Berruti è Henry Carr, altissimo e dalla corsa un po’ impettita, primatista del mondo con 20”2, più tardi professionista nei New York Giant di football. Livio, che passa per essere un veterano e ha 25 anni, è quinto, il migliore dei tre europei arrivati sin lì; Sergio, che ne ha 22, è ottavo dopo una curva a perdifiato. I tempi elettrici sono 20”36, 20”83, 20”94.

Berruti perde la corona – normale finisse così – ma nel frattempo ha perso anche il record europeo e italiano: quattro mesi prima, a Saarbrucken, a cavallo tra Francia e Germania, Sergio corre in 20”4, un decimo meglio dello storico e doppio 20”5, record mondiale per quasi due anni. Uno sparo nel buio? Non proprio: due anni prima, appena al di là del recinto degli juniores, un ventenne Ottolina è terzo agli Europei di Belgrado, stadio del Partizan, vicino allo svedese Owe Jonsson e vicinissimo al polacco Marian Foik, 20”8 tutti e due.

L’erede di Berruti all’originale non assomiglia neanche nell’allacciarsi le scarpe. E infatti nell’attacco alla base su cui è montato il monumento comincia proprio dalle calzature, sottraendogliele e facendole cambiare da bianco latteo a nero notte, usando lucido militare, bello grasso. Livio, distaccato, aristocratico, è il suo bersaglio: Sergio spedisce inviti per un matrimonio tra Berruti e la signorina Flavia Moretti: non esiste il matrimonio e non esiste la signorina Flavia Moretti. O meglio, esiste, ma è solo un modello di auto. Il repertorio è lungo e di una spietatezza allegra.

Il piemontese dai modi garbati e un po’ freddi e il lombardo pepe e fuoco: la strana coppia si ritrova assieme in quella finale e non solo in quella, perché a Tokyo con Preatoni e Giannattasio saranno settimi nella 4x100, e quattro anni dopo, a Mexico, con Sguazzero per Giannattasio, ancora settimi. E subito dopo Sergio diventa un Easy Ryder ante litteram – ma senza finale drammatico… - lanciandosi in moto da El Paso a New York. Dovevano affiancarlo anche Ottoz e Ito Giani, rinunciano all’ultimo momento e lui va solo, 6.000 chilometri di libertà senza paura.

Una vita così, di scelte, di improvvisazioni, come quando decide di correre i 400 e dà alla luce un record italiano in 46”2. Poteva essere l’ennesima frontiera da varcare ai Giochi di Monaco di Baviera ma nel frattempo una scivolata in moto gli costa due vertebre e un tallone e a trent’anni arriva l’addio alle armi. A seguire, un periodo in Sudafrica per commerciare ma anche per inviare corrispondenze, sotto il nome di Otto Krummenacker, sugli esordi di un interessante giovanotto di passaporto italiano, Marcello Fiasconaro; una stagione nel bob; altre incursioni in altri mondi. Sempre con un sorriso disegnato sul volto. Beffardo? No, eternamente allegro. La vita è quel che è, meglio cavalcarla con la briglia lunga della leggerezza.

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La finale dei 200 metri a Giochi Olimpici di Tokyo 1964 (archivio FIDAL)



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