Spalle ai blocchi, il rituale di Herbert

02 Novembre 2015

di Giorgio Cimbrico

Non volendo vedere quel che lo aspettava, Llewellyn Herbert dava le spalle ai blocchi di partenza, la schiena alla prima curva e solo al richiamo dello starter si chinava, spesso abbassando gli occhi o nascondendoli dietro lenti scure. Di singolari atteggiamenti è ricco il giardino zoologico dell’atletica prima che suoni una campana che si trasforma in sparo: c’è chi finge indifferenza, chi si assesta violente pacche, chi mostra la lingua, chi ride, chi è serio, chi, di recente, si esibisce nel saluto militare, chi accenna qualche passo di danza: Usain Bolt  riunisce molti di questi gesti in quel corpo smisurato, in quella mente fervida. Ma Herbert rimane unico: l’uomo che stava per tuffarsi in quell’eterno ignoto che sono i 400hs, distanza nobile (nell’albo d’oro anche un pari d’Inghilterra) e micidiale, affascinante e spietata, voleva avvicinarsi a quel maelstroem di emozioni senza inutili guasconerie. O provando a ignorare, sino all’ultimo momento, il tormento con poca estasi che stava per provare sui suoi muscoli, nella sua mente.

Herbert, oggi 38enne, è nativo di Bethal, Eastern Transvaal, oggi ribattezzato Mpumalanga, in zulu, “il luogo dove sorge il sole”. Nella sua famiglia, radici gallesi: solo così si spiega quel nome che si pronuncia come se l’iniziale fosse una strascicata “c” e che è anche quello del protagonista di “Non è un paese per vecchi”. Secondo ai Mondiali del ’97, ad Atene, alle spalle di un acerrimo rivale di Fabrizio Mori, il francese Stephane Diagana, Llewellyn mostrò già in quell’occasione di saper dar il meglio nell’occasione importante lasciandosi alle spalle (è proprio il suo caso…) la frontiera dei 48” e chiudendo in 47”86.

La conferma venne tre anni dopo, nella finale olimpica di Sydney, una gara che si risolse con un testa a testa così furibondo e singolare da gettar ombra sulla prova del sudafricano. A centropista Hadi Soua’an Al Somaily, arabo interamente in bianco, lanciò la contesa su ritmi violenti e fu proprio Herbert, inquadrando nella retina corsia e ostacoli, a provare a tenergli dietro. All’ingresso sul rettilineo, Al Somaily aveva un buon margine, Herbert sembrava in leggera rottura e l’americano Jamer Carter appariva come un serio pretendente al podio. Pochi, tra i 100.000 abbondanti che assiepavano lo lo stadio di Auburn, alle ultime propaggini della baia di Sydney, degnavano di uno sguardo la corsia che tocca a chi non è favorito dalla sorte, la prima. “Non preoccuparti, prima vuol dire primo”, aveva annunciato profetico Terence Trammell all’amico preoccupato dallo sfavorevole sorteggio. E fu così che Angelo Taylor andò a pizzicare Al Somaily dopo 399 metri di corsa di testa e a piegarlo di tre centesimi 47”50 a 47”53, un record asiatico che tiene tuttora e a occhio terrà ancora a lungo. Herbert, ora con lo sguardo ben fisso davanti a sé, ebbe lo stesso tipo di reazione degli indomiti giocatori di rugby che popolano la sua terra e mise le mani sulla medaglia di bronzo in 47”81, firmando un record nazionale che solo undici anni dopo sarebbe stato migliorato da Louis Van Zyl.

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