Simeoni regina dell'alto

18 Aprile 2013

Il 19 aprile la campionessa olimpica di Mosca 1980 compie 60 anni. Il racconto della carriera di una stella assoluta dell'atletica italiana che ha scritto la storia del salto in alto.

Rosemarie ha piccole fasce che cingono un ginocchio e una caviglia; la solita rincorsa calciata, la solita salita di forza per avvolgersi attorno all’asticella nella bellezza, assoluta e assaltatrice, del gesto dei ventralisti, ma l’azione è soltanto una lontana, pallida imitazione dei meccanismi perfetti della ragazza di Cottbus, l’Horine delle donne. Perché Rosemarie, signorina Witschas, signora Ackermann, è stata la prima a scalare i 2,00: era il 26 agosto 1977, all’Olympiastadion di Berlino Ovest e fu anche per il luogo che il compagno segretario Honeker la chiamò per stringerle la mano e indicarla a esempio per tutti i giovani della Ddr. Rosemarie, sette salti, senza un errore  i due record del mondo a 1,97 e a 2,00 chiusi dentro dieci minuti perfetti. Gli errori vennero a 2,02, troppo alti anche per chi aveva la forza e la grazia.

Non sono passati ancora tre anni, è il 26 luglio 1980 e sulla pedana di Mosca i muscoli crepitano, i tendini cigolano come le cime di una nave assalita dal fortunale. Tre errori a 1,94, fuori. Rosemarie rimbalza sui sacconi, si porta le mani al viso come per dire “ma cosa ho combinato” e accenna un sorriso triste che rende ancor più malinconico quel volto da piccola fiammiferaia e va a rifugiarsi ai confini della pedana. Darà un’occhiata, si sforzerà di dare una mano a Jutta Kirst, ma sa bene che è inutile perché l’italiana con i capelli arricciati ha un terribile temperamento. Difficilissimo fregarla. Rosemarie ci è riuscita solo nei suoi momenti più nitidi. Come quattro anni prima a Montreal, ma quella aveva saputo vender cara la pelle e sino a 1,91 le aveva alitato sul collo.

E poi tutto finisce rapidamente: a 1,97 si arenano sia Jutta sia Urszula Kielan, la polacca dall’aspetto efebico che riporta a Jacek Wszola e, naturalmente, al Tadzio di “Morte a Venezia” e anche l’italiana sbaglia, ma una volta sola.


Alla seconda quando ricade, alza al cielo occhi spiritati, batte le mani, scuote la testa, tutto in una sequenza rapida. Dopo il sesto posto di Monaco ’72 (nel giorno di Ulrike Meyfarth bambina prodigio e del giudice tedesco che assesta un bel calcio ai sacchi mentre l’asticella ballonzola e vibra dopo l’ultimo salto di Danche Blagoeva…), dopo l’argento di Montreal, Sara Simeoni è campionessa olimpica, e c’è il tempo di notare che i calzettoni sono ben tirati quasi al ginocchio e che Erminio Azzaro ha divorato un pacchetto di Muratti (a quel tempo al Lenin, come dappertutto, si fumava…) e i mozziconi sono lì attorno, prove schiaccianti e schiacciate dell’amore del fidanzato e della passione del tecnico. E Sara fa il giro della pedana, abbraccia le altre, si commuove e si commuoverà più tardi su podio. Al Lenin, nell’Olimpiade tormentata dal boicottaggio, resa incerta all’atteggiamento del governo italiano, la parabola della ragazza di Rivoli Veronese tocca il punto più alto. E nessuno ha mai potuto dire che ha vinto una gara a scala ridotta. Le forti c’erano. Tutte.

Cosa volevi fare da grande? E’ una domanda che le hanno fatto spesso e che le rivolgono quel giorno mentre rigira tra le dita la medaglia d’oro. “La ballerina classica. Ma ero troppo alta”. Una Giselle mancata, una Odile con le ali tarpate da un giudizio frettoloso, la figlia del notaio di Rivoli, ma alla fine senza riempianti perché le sue rappresentazioni sono così memorabili da meritare di esser riviste, così come capita con una cassetta o un dvd di Margot Fonteyn, fatta dame dalla Regina. Perché Sara ha ballato su tutti i palcoscenici, mai arrendendosi agli strali della sorte, armata di uno strumento non acquistabile né ottenibile con mezzi illeciti: l’agonismo.


E alla fine, chi l’ha seguita con attenzione, rispetto, affetto, più che al record mondiale a 2,01 che tracciò come un baleno al campo scuola di Brescia il 4 agosto 1978, ritorna a quella sera di ventisette giorni dopo quando, nel freddo di Praga, in palio la corona europea, Sara e Rosemarie diedero vita a una delle più straordinarie “battaglie di dame” che la storia dello sport abbia riservato. Se fosse necessario scegliere una colonna sonora, non potrebbe che venire dalle Nozze di Figaro: il duetto di Susanna e della Contessa. Una delle cose più alte di chi ne scritte tante – Mozart, certo -, finita in un capolavoro, Le Ali della Libertà. Anche Sara aveva le ali.

Era una serata fredda sulla collina di Strahov e salto dopo salto Rosemaie e Sara si rifugiavano nel ventre caldo di un sacco a pelo e spesso i loro sguardi si incrociavano e balenava qualche sorriso. E Sara riusciva a ripetere quanto aveva scavalcato in quella gara senza emozioni e Rosemarie ci andava vicina: l’asticella rimaneva un breve attimo sui ritti e poi franava a terra e a lei non restava che portar le mani alle gote nel più disperato dei gesti. In quel momento Rosemarie capiva di aver perso il trono, di non poter più aspirare a rioccuparlo. E quanto sarebbe capitato un anno dopo, a Torino, finale di Coppa Europa (lei davanti a Sara, per l’ultima volta) si sarebbe trasformato solo in un canto del cigno, perché il suo slancio vitale era alla fine e quello di Sara in ascesa piena. E Mosca era la successione, il passaggio della corona, in tutti i sensi.

Il coraggio, il magnifico furore avrebbero portato la veronese a un quarto appuntamento olimpico, a Los Angeles ’84, dopo che, vedendola uscire in barella ai Mondiali di Helsinki ’83, qualcuno si era affrettato a intonare il de profundis. A 32 anni - “e con poca autonomia” ha confessato lei – ancora sul podio, nel miracolo del Coliseum, per la terza volta oltre il muro dei due metri, “ad affrontare quell’asticella che mi sembrava alta come la porta di casa”. Davanti, solo l’ex-bambina prodigio Ulrike Meyfarth che aveva perso il bandolo per ritrovarlo. Sara lo ha tenuto sempre stretto in pugno. Con ardore.

Giorgio Cimbrico

simeoni

File allegati:
- La scheda di Sara Simeoni


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