Mister Coppa Europa, Fabrizio Mori

18 Giugno 2014

Al campione del mondo dei 400hs di Siviglia 1999 è dedicata la prima puntata della galleria di protagonisti azzurri al trofeo continentale dove proprio Mori ha collezionato 5 vittorie in 12 partecipazioni

di Giorgio Cimbrico

Senza che se n’abbiano a male antichi e nuovi moschettieri che hanno vibrato le loro stoccate, che sono stati dannatamente utili alla causa, che hanno dato tutto in sfide infernali per un punto in più (su quel terreno, nulla dev’esser buttato), il titolo di Mister Coppa Europa è di Fabrizio Mori che a fine mese, il 28, giungerà al traguardo dei 45 anni ma è sempre nella forma perfetta di chi sta per chinarsi sui blocchi della distanza che non perdona: un quarto di miglio con dieci ostacoli è un killing o un killer event? Fabrizio ha vinto cinque volte (come Alessandro Lambruschini al quale sarà dedicata la prossima puntata di questo speciale dedicato al Trofeo continentale), ma tutto sommato, e senza imboccare il sentiero del paradosso, questo è il meno. Se può stringere questo invisibile trofeo, costato certamente più di 100 ghinee di stima e affetto, lo deve alla sua disponibilità. E così, come in tante storie esemplari, si può ricorrere a un espediente non nuovo ma che garantisce sempre un certo effetto e crea un’atmosfera cinematografica: partire dalla fine, da quel quinto posto, da quel 50”18 al Ridolfi fiorentino, la sua ultima volta stringendo i denti, provando a dimenticare tendini doloranti, a pescare energie in uno stagno quasi prosciugato. Quel che poteva dare, lo diede: era il 2003 e l’addio era dietro l’angolo. I 400hs sono un killing event.

Un anno prima, nella savoiarda Annecy e in una giornata improvvisamente torrida (dopo l’arrivo, Fabrizio versava bottigliette sulla testa e l’acqua evaporava prima di toccare il cuoio capelluto), era arrivata la quinta vittoria davanti al campione di casa Stephane Diagana e al britannico Chris Rowlinson. Corse in 48”41, il suo secondo tempo in coppa, riproponendo a 34 anni il meglio del suo repertorio: il ritmo e la ferocia che straripava da quello sguardo fermo. I 400hs sono un killer event.

Quando si ripercorrono strade lastricate di emozioni, è facile perdere la direzione giusta e finire in momenti che, come il verso che annunciò lo sbarco in Normandia, riempiono il cuore di un monotono languore.

E il viaggio riporta al ’99, alla vigilia della finale di Siviglia, al faccia a faccia con Fabrizio e con Roberto Frinolli in un patio dove poteva non esser avvertita l’implacabilità del sole africano che batteva le strade della città. Ricordo che uscii da quella chiacchierata con un’idea fissa: sposare i destini dell’allenatore e dell’atleta e così l’ultima riga fu: Frinolli ultimo. Mori primo? E, devo dirlo, fu assai soddisfatto della mia capacità di creare effettacci ed effettini. Poco più di ventiquattro ore dopo, l’attesa del verdetto dopo il reclamo della Francia, spazzò via questi compiacimenti e per la prima e l’unica volta nella mia vita scrissi due pezzi diametralmente opposti: la fiesta sivigliana di Fabrizio o il barbiere livornese servito di barba e capelli. Intorno a mezzanotte, annunciai, con una voce isterica, che poteva essere pubblicata la prima versione.

Dicevo all’inizio che il titolo di Mister Coppa Europa tocca a Fabrizio per la sua lunga milizia (dal ’91 al 2003, affrontando generazioni di avversari: da Jonathan Ridgeon a Sven Nylander, da Kriss Akabusi a Ruslan Mashenko), per i suoi successi e piazzamenti (oltre alle cinque vittorie, anche un secondo posto e due terzi) e per la sua disponibilità che nasceva anche da una furia agonistica che trovava momento di perfetto sfogo nella 4x400 che, atto finale dello scontro tra nazioni, cinque volte lo vide dare una mano. Pardon, un paio di gambe. I due posti sul podio in staffetta portano il totale dei piazzamenti tra i primi tre a quota dieci. Tagliata la testa al toro che sbuffa e vorrebbe la riapertura della pratica. Sulle scene della mirabile invenzione di Bruno Zauli (oggi assai riveduta e scorretta), Mori ha recitato da protagonista, da capitano, da simbolo. Quando per la prima volta portò punteggio pieno (Madrid ’96) l‘Italia raggiunse il suo momento più alto: terza. Tre anni dopo, a Parigi, tris e Italia seconda, in fondo a uno di quei pomeriggi da tre passi nel delirio. Un delirio gioioso.

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