La maratona di Akhwari: ''Mai arrendersi''

29 Ottobre 2015

La storia del tanzaniano che, malgrado una brutta caduta, portò a termine la maratona olimpica di Città del Mexico 1968, chiudendo all'ultimo posto

di Giorgio Cimbrico

La cerimonia era finita, Wolde, Kimihara e Ryan avevano avuto le loro medaglie, la gente stava lasciando lo stadio, il sole era tramontato. “Ehi, ma dicono che c’è ancora uno che sta correndo sulla avenue”, disse un operatore dell’ultima troupe che stava sbaraccando: il miraggio era un tavolino da coprire di bottiglie di cervezas. Avrebbe dovuto dire paseo e non avenue, ma era americano e pensando a quel vialone di Mexico City che portava verso lo stadio gli venne quella parola. “Dai, è impossibile. I primi sono arrivati da un’ora abbondante”, replicò il collega che sperava di aver chiuso la giornata: a 2200 metri di altitudine – altura, dicevano gli indigeni – il fiato fa presto a mozzarsi e il cuore a imbizzarirsi come un pony e loro tiravano avanti da ore, nel caldo.

In quel momento avvertirono dell’agitazione dalle parti del boccaporto e lo videro: il più malconcio maratoneta su cui avessero posato gli occhi nelle altre maratone olimpiche che avevano seguito. Ne avevano visti di disidratati, di deliranti, di trascinati via sostenuti o distesi su una barella, tremanti o bollenti: immagini di rese, di bandiere bianche che fanno sempre un certo effetto quando si monta il filmato. Ma come quello, mai: sangue che gli si era seccato addosso, un ginocchio, il destro, fasciato alla bell’e meglio, una spalla che piegava verso il basso. E andava avanti, quella specie di giocattolo rotto, e il traguardo ormai era lì, a portata. “Riprendiamolo”. E sullo sfondo ripresero anche il tabellone che avevano riacceso: 3h25”27, un’ora e cinque minuti da Wolde, 57°, ultimo. I pochi rimasti lo applaudirono e qualcuno gli regalò anche una lacrima. “Ma chi è?”. Maglia gialla, pantaloncini verdi, pelle nera, numero 36: John Stephen Akhwari, Tanzania.

Venne il tempo, dopo che lo portarono all’ospedale per rimetterlo assieme, per chiedere e sapere cosa era successo e anche John collaborò per una più chiara visione dei fatti. “Non avevo mai corso a un’altitudine così e nella prima parte ho avuto dei campi, ma sono andato avanti. Prima di passare ai 20 chilometri, ho urtato un paio di avversari che provavo a passare, sono caduto sull’asfalto: quando ho provato a rialzarmi ho sentito che il ginocchio destro non funzionava, che la spalla doleva ed ero tutto impiastricciato di sangue. Mi hanno detto che mi avrebbero portato all’infermeria e io ho risposto che non ci pensassero nemmeno. Una benda, una ripulita, un po’ acqua e sarei andato avanti”. Così per 23 chilometri. Altro che la solitudine del maratoneta.

Non è noto se John, nato trent’anni prima a Mbulu, quando la Tanzania si chiamava ancora Tanganyka e faceva parte dell’Africa Orientale Britannica, conoscesse uno dei memorabili motti di Winston Churchill: “Never, never, never give up: mai, mai, mai arrendersi”. Di sicuro ne creò lui uno, passato alla storia dei Giochi e agli annali della perseveranza e dell’orgoglio. Uscì fuori, con una naturalezza disarmante, quando gli domandarono: “Ma perché, ridotto com’eri, non ti sei ritirato?”. “Il mio paese non mi ha mandato qui, a 5.000 miglia da casa, perché mi ritirassi, mi ha mandato perché finissi la gara”. Esistono alcune versioni sul numero delle miglia (5.000, 7.000) o dei chilometri (11.000), ma il significato non cambia di un pollice.

Akhwari, contadino e pastore con una mezza dozzina di figli, era un buon maratoneta: lo dimostrò due anni dopo ai Giochi del Commonwealth di Edimburgo, quinto in 2h15’06”. La Tanzania volle ricordare quella pagina di abnegazione quindici anni dopo nominandolo Eroe Nazionale. Lo invitarono anche ai Giochi di Sydney e nel 2008, settantenne, corse la sua frazione di tedoforo a Dar es Salaam. Beato l’ultimo se è coraggioso.

IL VIDEO dell'ARRIVO di AKHWARI AI GIOCHI OLIMPICI DI CITTA' DEL MESSICO 1968

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