Indoor albori mondiali

26 Febbraio 2014

A poco più di una settimana dalla quindicesima edizione a Sopot (Polonia, 7-9 marzo), le storie e i protagonisti delle prime rassegne iridate in sala

di Giorgio Cimbrico

Dopo aver creato un mondo all’aperto, Primo Nebiolo, impresario e demiurgo, decise che era il caso di metter mano anche a uno invernale, al coperto, e finì per scegliere quel moderno ziggurat appena costruito a Bercy, tra lo scalo ferroviario omonimo e la Gare de Lyons. A poco più di un mese dal primo appuntamento (l’etichetta apposta per l’edizione dell’85 sarebbe stata di Giochi, non ancora di Campionati) finii per essere a fianco del vecchio in uno delle ultime visite a quella piramide tronca, coperta d’erba. Una delle emozioni più grandi fu quando Nebiolo mi presentò Jacques Goddet che abitava in un’isoletta di vecchie case che si erano salvate dagli sconvolgimenti subiti dal quartiere e che, ormai ottantenne, passava il suo tempo a disegnare Tour della memoria e della fantasia.

Era una giornata gelida, così come gelide furono quelle dell’esordio di una rassegna di respiro mondiale. Per fortuna all’interno dell’Omnisport il riscaldamento funzionava egregiamente e ad alzare la temperatura pensò un giovanotto canadese che regolò la muta degli avversari: nei 60, primo Ben Johnson, Canada, in 6”62. Era l’inizio di un’avventura che sarebbe finita in un tuffo verso il basso simile a quello di Lucifero. Marita Koch vinse i 200 in 23”09 e inaugurò l’anno che l’avrebbe portata allo storico e mai scalfito 47”60 di Canberra; Stefka Kostadinova scavalcò 1,97; Sergei Bubka, costretto a disertare Los Angeles, diede seguito al sorprendente successo di Helsinki ’83 con un “normale” 5,75; Patrick Sjoberg tenne a bada Javier Sotomajor lasciandolo a due centimetri, 2,32 a 2,30. Per Giuliana Salce erano i tempi felici dei suoi piccoli mondiali indoor e questo successo sui tre chilometri la rese la più solida interprete delle distanze brevi. Il resto del raccolto azzurro venne da Maurizio Damilano, secondo nella 5 km, e da un bel giovanotto padovano, Giovanni Evangelisti, terzo nel lungo a pochi centimetri dall’oro del ceko Leitner.

Due anni dopo, i Campionati ebbero il loro battesimo ufficiale allo Hoosier Dome di Indianapolis, un immenso palazzone dove si giocava a football, così grande che venne “tagliato” a metà e ugualmente poteva dare ospitalità a più di 20.000 spettatori. Il viaggio fu lungo e prevedeva un’ultima sosta a Chicago. Non un cane si presentò all’arrivo di Nebiolo che divenne viola e verde di invidia quando Piero Ottone espletò senza formalità l'assaggio della “frontiera”. Nessuno lo accolse nemmeno all’arrivo a Indy e il particolare lo fece schiumare altra rabbia: aveva portato un Mondiale in America e doveva prendere un taxi per andare in albergo, come un comune mortale. Lui magari esagerava ma gli americani non sono dei maestri nel campo delle buone maniere. La città, inoltre, era reduce dalla convention sui maiali dell’Indiana ed evidentemente l’atletica non era in cima ai pensieri.

I campionati presero il via con la caduta di Eamonn Coghlan nelle batterie dei 1500 e con Joe Chaplin, l’uomo che aveva creato il miracolo Henry Rono e nell’occasione delegato tecnico, che voleva ammettere ugualmente l’irlandese alla fase successiva perché “ Eamonn è un ragazzo simpatico ed è molto popolare negli Stati Uniti”. Per fortuna venne fermato da Sandro Giovannelli. Evangelisti fu ancora terzo nel lungo, con 8,01, alla pari con il nigeriano Emordi, e ricordo che il ct Enzo Rossi contestò l’operato dei giudici, rei secondo lui di aver rubato centimetri. Sei mesi dopo, l’inconsapevole Giovanni ne avrebbe avuti in dono una quarantina in fondo allo Watergate dell’atletica italiana. Terzo anche Pier Francesco Pavoni in 6”59 (e quarto il solido Antonio Ullo) nei 60 da record mondiale in 6”50 dell’americano Lee McRae, e seconda Giuliana Salce, staccata di quasi mezzo minuto dall’infernale ritmo della sovietica Krishtop. I top vennero dalle pedane: Paklin e Avdejenko 2,38 (il sesto, il romeno Matei, saltò 2,32), Mike Conley rimbalzò a 17,56, Kostadinova scalò il tetto con il record mondiale portato a 2,05, Heike Drechsler atterrò a 7,10 dopo aver corso i 200 in 22”27 (limite assoluto) lasciando a quattro decimi Merlene Ottey, a uno dei tanti argenti della sua sterminata collezione. Uno dei momenti di gusto indimenticabile venne quando, verso la fine della terza giornata, arrostirono un bue intero che venne divorato da chi portava al collo un accredito.

Giusto nei giorni del marzo ’89 in cui, di fronte alla commissione Dubin, Ben Johnson scoppiando in lacrime rendeva piena confessione dei suoi misfatti farmacologici, l’arena di Budapest vicina al Nepstadion ospitava i Mondiali che sarebbero diventati quelli di Paul Ereng e di Javier Sotomajor. I due exploit vennero a poca distanza l’uno dall’altro e risultò difficile stabilire quale dei due avesse destato l’emozione più violenta. Un volo a 2,43 era impressionante ma quei quattro giri percorsi con fare regale dall’elegantissimo membro dei Turkana (la tribù che vive miracolosamente in un paesaggio lunare) finì per coinvolgere sino alla commozione. Con 1’44”84 Paul strappò il record mondiale a Sebastian Coe, trascinò il brasiliano Barbosa a 1’45”43 e diventò lepre di extralusso per Tonino Viali che, terzo in 1’46”95, salì sul podio accanto a un tale fenomeno, destinato a bruciare in fretta il suo talento. E di bronzo risultò anche il resto del raccolto azzurro, ancora con Pavoni nei 60 del cubano Andres Simon, e di Ileana Salvador che iniziava a marciare nelle zone nobili.

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Primo Nebiolo premia Javier Sotomayor dopo il record mondiale indoor di salto in alto, 2,43, realizzato in occasione della rassegna iridata in sala di Budapest 1989 (archivio FIDAL)



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