Hary, Elliott, Bragg: i giorni di Roma ’60

01 Settembre 2020

Sessant’anni dai Giochi dell’Olimpico: il racconto di tre giornate simbolo per l’atletica e per i suoi protagonisti

di Giorgio Cimbrico

1 settembre. Per la prima volta nella storia dei Giochi i 100 non parlarono inglese. Dalla rifondazione del barone Pierre de Coubertin, l’oro era andato a dieci americani, un sudafricano, un canadese, un britannico. A Roma, a un tedesco originario della mineraria Saarland, Armin Hary, forte, compatto, dotato di formidabili riflessi motori e di una capacità, coltivata, di “rubare” allo sparo. Hary è stato un grosso cerino che si è bruciato in poco più di due mesi: il 21 giugno 1960, al Letzigrund di Zurigo, il primo 10.0 (che fa più impressione scrivere 10 netti) della storia, così stordente che la gara delle 19.45 venne annullata. “Suonala di nuovo, Sam”: diceva in Casablanca Humphrey Bogart al pianista. E Armin la suonò di nuovo dopo 35 minuti: ancora 10.0, con i tre cronometri ufficiali che dissero 10.0, 10.0 e 10.1 e un crono elettrico che annunciò 10.25. Da orologio svizzero.

I favori del pronostico per la vittoria olimpica erano riservati a Ray Norton (che aveva vinto i 100 in Usa-Urss, ai Panamericani e ai Trials) e, appena sotto, a David Sime. Qualche percentuale veniva concessa anche al canadese Harry Jerome che il 15 luglio era giunto al tempo magico e che la città di Vancouver ha onorato con una statua, a Stanley Park. Sembrava irreale che un tedesco potesse avere la meglio sui padroni americani e sugli anglofoni. Jerome si stirò in semifinale e nello stesso turno Hary (10.2 nei quarti) si lasciò alle spalle sia Sime che Norton. La finale fu una faccenda complicata e con l’attuale regolamento la medaglia d’oro non avrebbe preso la strada di Deutschland: sia Hary che Sime, dopo un “al tempo”, non furono sanzionati, il cubano Enrique Figuerola interruppe la procedura per farsi sistemare i blocchi e al quarto tentativo di avvio di quello che stava diventando un palio di Siena, l’abile e disinvolto Armin si vide appioppare la falsa. Il quinto fu quello buono e Hary schizzò via tanto rapidamente da guadagnare un metro nei primi cinque. Sime, ultimo a lasciare i blocchi, trasformò la gara in un inseguimento ma finì per cedere per quello che fu misurato in un piede, 30 centimetri, distacco confermato dal crono elettrico: 10.32 a 10.35. Il risultato ufficiale parla di 10.2 per entrambi. Hary sarebbe tornato agli onori (nel suo caso, ai disonori) della cronaca dopo esser stato incarcerato per una truffa ai danni della diocesi di Monaco di Baviera.

6 settembre. È la data che ha fatto la storia dei 1500. Herb Elliott, da Subiaco, Australia Occidentale, fece una cosa sublime: la vittoria olimpica con il record del mondo, un tempo che ancor oggi farebbe gola a molti, 3:35.6, andando via poco dopo metà gara con una magnifica naturalezza. Distacco da cronoprologo a pedali, quasi tre secondi su Michel Jazy, uno dei campioni amati da Charles de Gaulle.

Elliott diede un piccolo strattone al record, 3:36.0 di due anni prima a Göteborg, quando aveva cancellato il limite, 3:38.1, di Stanislav Jungwirth. Elliott si ritirò giovanissimo: “Ho vinto l’Olimpiade e i Giochi del Commonwealth, ho centrato il record mondiale dei 1500 e del miglio. Cos’altro avrei potuto fare?”. Tanto largo fu il vantaggio di Herb quanto stretto risultò quello che permise a Otis Davis da Tuscaloosa di metter le mani sull’oro dei 400 davanti al tedesco-newyorkese Carl Kaufmann: 45.07 a 45.08. Per entrambi record mondiale e prima discesa manuale - e comunque storica - a 44.9. Il tuffo di Carl, più tardi buon tenore, non fu sufficiente ad aver la meglio sull’assetto “impennato” di Otis. Finale memorabile: a parte l’Oceania, tutti i continenti erano rappresentati. Il sudafricano Malcolm Spence (il paese non era stato ancora bandito) finì terzo in 45.5 dopo un avvio selvaggio, davanti all’indiano Milkha Singh che durante la spartizione del Raj tra India e Pakistan, nel 1947, aveva assistito allo sterminio della sua famiglia.

L’oro del decathlon è stato appena assegnato, in fondo a due giornate interminabili, e anche i titani possono essere stanchi. Rafer Johnson e il taiwanese Yang Chuan-kwang erano compagni di università alla californiana Ucla, avevano già gareggiato a Melbourne ’56 (secondo e ottavo) e in comune avevano l’allenatore, Ducky Drake, che prima del colpo di pistola dei 1500 distribuì all’uno e all’altro, divisi da 67 punti, i consigli del caso. A Johnson: “Stagli attaccato ai talloni e preparati a un finale d’inferno”. A Yang: “Vedi di accumulare vantaggio e prova a dare tutto quando sentirai la campana”. Yang attaccò, Johnson provò ad addentargli i talloni e finì per cedere per poco più di un secondo. L’oro fu suo per 58 punti e, a scorrere i parziali, risulta evidente che la differenza fu scandita dal disco: l’americano approdò a 48 metri e mezzo, il taiwanese non raggiunse i 40. Sino a quel momento, l’equilibrio si era trasformato nella più potente ed eccitante delle spezie, a cominciare da una prima giornata in cui la velocità di Yang aveva avuto spesso la meglio sulla forza di Rafer, capace di superare i 15 metri e mezzo nel peso, ma costretto ad accusare nei 100 (10.7 a 10.9) nel lungo (7,46 a 7,35), nell’alto (1,90 a 1,85), nei 400 (48.1 a 48.3) in fondo a un impegno che si esaurì alle 11 di sera.

Johnson, che aveva 13.9 nei 110hs, fallì la prova inaugurale della seconda giornata prendendo in pieno la prima barriera e raccogliendo un misero 15.3: Yang corse in 14.6 (e Franco Sar, 14.7, mise le basi per il suo formidabile sesto posto) e lanciò il suo serrate ma il sogno di diventare il primo taiwanese a vestire i panni di campione olimpico venne frustrato dalla resistenza di Johnson che limitò i danni nell’asta (4,30 a 4,10), guadagnò qualcosa nel giavellotto e strinse i denti su quella distanza che per i proteiformi prende spesso le sembianze di una maratona. Otto anni dopo, Rafer, assai vicino alla Famiglia, era al fianco di Robert Kennedy nelle cucine dell’hotel Ambassador di Los Angeles: toccò a lui reggere il capo di Bobby negli ultimi istanti di una breve agonia.

7 settembre. Nessuno l’aveva mai fatto. O meglio, l’aveva fatto Johnny Weissmuller, ma sullo schermo, non sul podio olimpico. Don Bragg voleva essere Tarzan, aveva il fisico, e così provò a sfruttare il momento propizio, quando gli misero al collo la medaglia d’oro del salto con l’asta. Olimpico pieno e soprattutto una buona platea televisiva sparsa nel mondo: nel 1960 non era ancora globale ma i network cominciavano ad avere il loro peso. E quell’urlo fu per tutti una sferzata di sorpresa, di sconcerto. Gli atleti, di solito, erano molto compunti. Don era alto più di 1,90, tendeva ai 90 chili e doveva stare attento a non superare l’asticella delle troppe calorie ingurgitate. A Roma vinse con 4,70 e, ultimo grande rappresentante dell’età delle aste in metallo, aveva superato i 4,80 del record mondiale due mesi prima, ai Trials di Stanford, e nell’inverno precedente si era spinto a 4,81.

Diventare il Re delle Scimmie era un chiodo fisso sin dall’infanzia, sfogliando fumetti e andando a sedersi nel cinema di Penns Grove, New Jersey, dove era nato nel ’35. Un paio di incontri con Weissmuller furono decisivi perché la sua convinzione diventasse ferma: “Hai il fisico giusto, puoi provarci”. E così, quando venne inviato in Africa dal Dipartimento di Stato come ambasciatore per l’amicizia tra i popoli diede spettacolo scalando alberi e dondolandosi dalle liane. Era ormai Tarzan, per tutti e a tutti gli effetti, ma quando finalmente Hollywood si decise a dargli fiducia, non ebbe fortuna: la prima volta aveva qualche problema fisico e la seconda, quando stava per esser dato il primo ciak di “Tarzan e i Gioielli di Opar” e Don stava per lanciarsi nel primo volo, le riprese furono interrotte per problemi contrattuali. In occasione del 50° anniversario dei Giochi di Roma, chiuse il suo intervento oratorio lanciando l’urlo di Tarzan. Incrollabile. Edgar Rice Burroughs, creatore della saga, ha grosse responsabilità. 

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