Fabrizio Donato, campione infinito

06 Marzo 2017

Con l’argento di Belgrado, il triplista azzurro prosegue una carriera eterna: terza medaglia agli Euroindoor, dopo l’oro continentale all’aperto e il bronzo olimpico

di Giorgio Cimbrico

Uno come lui nel rugby sarebbe un implaccabile, al cinema sarebbe un cyborg che cura da sé i danni e diventa indistruttibile; nella storia e nella geografia sarebbe una rocca di Gibilterra. Chi la butta giù? Nella vita reale, lontano dalle etichette più o meno suggestive che possono essere appiccicate, Fabrizio Donato è un ex-ragazzo ormai più vicino ai 41 che ai 40, una figura che pare sbozzata nel legno, la barba dura e ispida, lo sguardo deciso, il rimbalzare che ritma un’esistenza intera. Uno che non si è mai arreso e ha raccolto più da maturo che da giovanotto: un segno della sua irriducibilità davanti agli sgambetti della sorte, agli incidenti, agli infortuni, alle controperformance. Ultimamente ha deciso di lavorare anche da coach e ha risvegliato le fibre nobili e gli entusiasmi di Andrew Howe.

Un paio di settimane fa, al telefono: “Ho voglia di provare agli Europei: un paio di salti ce li ho”. Vero. Fabrizio non è uno che racconta balle, che organizza bluff. Quel che ha in mano, nelle gambe, in testa è anche quel che finisce sul tavolo che, nel caso, è il tabellone dei risultati. Solido, è noto. Ma quel che ha fatto a Belgrado rientra in un’altra categoria: commovente, soprattutto per chi lo segue da sempre e ha sempre provato un cocktail di ammirazione e simpatia.

Donato, l’Eterno, con la maiuscola. Inutile sottolineare che due di quelli che sembravano destinati a battagliare per il titolo (il tedesco Hess e il francese Raffin) potevano essere suoi figli. Se li è lasciati alle spalle e a batterlo è stato un altro veterano, non come lui, che è unico e ha una bella collezione di record mondiali di categoria, ma da tenere in nitida stima: Nelson Evora è vicino a 33 anni, ha attraversato momenti difficili e i suoi momenti di gloria sono lontani dieci e nove anni, Osaka mondiale e Pechino olimpica.

Se si tratta di riesumare, con Fabrizio si va a cavallo: il 17,60 dell’Arena è del 2000, il 17,59 del titolo europeo indoor all’Oval di Torino è del 2009 (Greta, la prima figlia, era piccolissima ma capì che papà aveva fatto qualcosa di importante) e in molti lo consideravano sul viale di uno splendido tramonto. Ma avevano letto male la data di scadenza: due anni dopo, a Parigi, 17,73 (la sua esplorazione più estrema), secondo dietro un formidabile Teddy Tamgho.

Il canto del cigno? Macché. A 36 anni, il 2012 gli ha concesso la sua stagione più alta: titolo europeo all’aperto a Helsinki (qualcuno li etichettò campionati di serie B, ma intanto lui saltò 17,63 con un refolo di vento di troppo), bronzo olimpico a Londra, stessa medaglia di Beppe Gentile a Mexico ’68. Giasone atterrò a 17,22 e per qualche minuto rafforzò la sua posizione di effimero primatista del mondo, Fabrizio lasciò un buco nella sabbia a 17,48, quattordici centimetri davanti a Daniele Greco, l’erede che la sorte ha trasformato in un san Sebastiano trafitto dai dardi.

Ora, Belgrado. Il capitano merita, come minimo, i gradi di colonnello. Data del ritiro, non ancora comunicata né conosciuta. Meno male.

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