Di Napoli e May ori sotto il tetto

03 Marzo 2014

La storia dei Mondiali Indoor prosegue con il racconto delle imprese azzurre del mezzofondista napoletano, due volte campione nei 3000 metri (1993 e 1995), e della primatista nazionale del lungo, vincitrice nel 1997 a Parigi

di Giorgio Cimbrico

Genny Di Napoli, alto, elegante, affusolato - e innamorato di un abbigliamento di gusto bohemien -, sembrava fatto apposta per l’atletica all’aria aperta e invece raccolse il meglio in arene al coperto. Toccò a lui conquistare il primo vero oro azzurro (quello di Giuliana Salce era venuto quando i Campionati erano ancora Giochi) e l’impresa ebbe luogo nel ’93 in quel Dome di Toronto che qualcuno ribattezzò “Camera con Pista”: l’enorme complesso in grado di ospitare anche partite di baseball, comprendeva un albergo con finestre che davano sul teatro di gara. L’ideale per i pigri. Quando la condizione era lucida, Genny si concedeva con generosità e con calligrafia: in Canada si presentò da campione europeo in carica (aveva vinto un anno prima a Genova colombiana) e in batteria tirò il collo a chi gli si mise in coda finendo in 7’50”. Centesimo più, centesimo meno, fu il tempo che due giorni dopo gli consegnò la corona mondiale debellando senza tremori il tentativo di serrate finale del francese Eric Dubus e dello spagnolo Enrique Molina. Appena ai piedi del podio finì Bob Kennedy, in seguito primo bianco a doppiare il capo dei 13’.

Due anni dopo, sul colle di Montjuich, al Palau de Sao Jordi, che alle Olimpiadi di Barcellona, aveva funzionato da arena della ginnastica, Di Napoli concesse un bis in fotocopia, anche nel tempo finale. Questa volta i domati – e costretti a spartirsi il resto delle spoglie – furono lo spagnolo Anacleto Jimenez e il marocchino Brahim Jabbour. Barcellona rappresentò anche l’apparire sulla scena di Hicham El Guerrouj: la vittoria sui 1500 e soprattutto la bellezza armoniosa e assoluta della sua corsa portarono a scontate previsioni su quanto avrebbe potuto fornire nel lungo futuro che lo attendeva. Malgrado le rassegne al coperto lascino spesso segni profondi nei salti e nella fulmineità dello sprint, in questo periodo furono gli interpreti delle distanze a trasformarsi in primedonne. A Bercy ’97, poco dopo l’ora del primo caffè mattutino, Wilson Kipketer, transfuga kenyano passato a servire la reale federazione danese, regalò in batteria una seduta di allenamento piuttosto tirata e offrì un record del mondo (1’43”96) che per collocazione oraria può esser messo a fianco di quello di giavellotto ad opera di Fatima Whitbread nella qualificazione di Stoccarda ’86. Sulla prestazione sparse una delle sue risatine beffarde. A quel punto, l’attesa per la semifinale diventò spasmodica ma la prova generale era già stata fatta e Kipketer si divertì a corricchiare i 1’48”. Il giorno dopo, con il serbatoio nuovamente pieno e con l’ambizione ben acuminata, stupì chi si era radunato sotto il tetto dell’Omnisport con uno stordente mondiale portato a 1’42”67 affibbiando al secondo, il marocchino Hajda, uno spaventoso distacco di 3”.

La vittoria di Fiona May può finire nel repertorio delle piccole vendette: alle immediate spalle dell’anglo-fiorentina (record italiano portato a 6,86, in una gara che vide il naufragio di Heike Drechsler) una piccola nigeriana dal viso duro, Chioma Ajunwa che un pugno di mesi prima, reduce da una lunga squalifica per doping, aveva fatto il colpo della vita mettendo le mani sull’oro olimpico di Atlanta con un primo salto a 7,12 ai danni della nostra azzurra Aida che aveva risposto con 7,02 ma non era andata oltre nell’assalto al vertice. Nel ’99 il viaggio fu molto lungo e poco agevole: Maebashi, tempio del keirin e delle furibonde scommesse, è a tre ore di pullman (o a un’ora e qualcosa di Shikansen, il treno proiettile) da Tokyo. La piccola spedizione italiana mise a bilancio quel che gli inglesi chiamano whitewash che, in una libera traduzione, equivale a un nulla di fatto. L’aspetto più rimarchevole venne da un particolare protocollare: ai nostri fu chiesto di cambiare albergo perché lì doveva soggiornare l’Imperatore, venuto a inaugurare i Mondiali. Il problema venne risolto senza traslochi e l’erede di Hiro-ito finì per dormire sotto lo stesso tetto di Andrea Longo e del resto della pattuglia azzurra.

Nel velodromo di Maebashi (dove si potevano acquistare magnifiche scatole-pranzo con riso che sembrava premasticato e con polpa di simil-granchio), andò come un razzo Maurice Greene (6”42), si fece notare la signorina Yekaterini Thanou e tornarono a recitare da prim’attori i saltatori: aiutandosi con una mano malandrina, Jean Galfione scavalcò 6,00 e nell’ultima giornata il lungo scaldò gli animi: la spuntò il peso leggero Ivan Pedroso con 8,62 ma il solido spagnolo Yago Lamela insidiò il cubano sino all’ultimo istante atterrando a 8,56, ritoccando il record europeo di Robert Emmian. A quel punto non rimaneva che prepararsi per il lungo viaggio di ritorno sulla sterminata Siberia.

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Fiona May ai Mondiali Indoor di Parigi 1997 (foto archivio FIDAL)



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