Amos sulle ali degli 800

02 Agosto 2014

La storia del sorprendente mezzofondista del Botswana, argento olimpico a Londra in 1:41.73 e fresco vincitore dei Giochi del Commonwealth davanti a David Rudisha

di Giorgio Cimbrico

L‘Amos biblico era un pastore, l’Amos nostro contemporaneo potrebbe diventarlo: due anni fa, quando tornò in Botswana con la medaglia d’argento olimpica, ricevette in dono sei mucche. Non è ancora noto in cosa consisterà l’omaggio per il titolo del Commonwealth che Nijel ha appena conquistato a Glasgow: il Botswana, sino al 1966, era il Protettorato del Bechuanaland, ha una superiore più di due volte a quella dell’Italia, nello stemma nazionale presenta due zebre che reggono uno scudo ed era irrotto nell’atletica con Amantle Montsho, titolo mondiale dei 400 a Daegu. “Ben fatto, fratello”: sono state le prime parole che David Rudisha ha rivolto al ragazzo che corre con azione disordinata sventolando le braccia e che, per la seconda volta in due settimane, si è lasciato alle spalle il magnifico masai. “David rimane il re, per la sua grandezza, per la sua gentilezza. Se un giorno mi chiedesse di dargli una mano per spostar più in là i limiti, sarei pronto”, confessa Amos che a vent’anni merita un aggettivo da usare con cautela: sbalorditivo. In sintesi, nasce il 15 marzo del ’94 nel nord est, nel villaggio di Marobela, va alla Shangano Community School e comincia a correre. Gli esordi sono quelli di certe stelle filanti dell’atletica kenyana ma con Nijel di mezzo la scia di luce non si spegne rapidamente come nella notte di San Lorenzo: 1’47”28 a 17 anni e quinto ai Mondiali giovanili.

Nel 2012 è tellurico: 1’43”11 a Mannheim, campione mondiale juniores a Barcellona in 1’43”79. Va a Londra, finisce nel mezzo miglio più fremente della storia e ne esce secondo al traguardo e terzo della storia in 1’41”73, sotto gli occhi di Lord Sebastian Coe al quale è finito al fianco: lo dice il cronometro. Il rinvio è all’aggettivo con cui finisce il capoverso precedente, ma questa volta maiuscolo: Sbalorditivo. Anche per il suo 45”66 sui 400. Entra in una zona d’ombra per un infortunio muscolare, ma non solo. “Si era montato la testa, si era staccato dalla famiglia, pensava di poter vincere allenandosi poco”, testimonia una sorella. C’è persino una parentesi “artistica”. Sotto il soprannome DJ Zoroski si mimetizza Nijel Amos, l’altro candidato a infrangere il muro dei 100 secondi. La via di Damasco è un incidente di macchina: capisce che deve tornare a fare sul serio.

Nel 2013, 26° al mondo in 1’44”71: piazzamento e tempo non fanno per lui. Nel 2014, secondo a Doha, dietro a Mohammed Aman, primo a Eugene, secondo a St Denis alle spalle di Asbel Kiprop, primo a Montecarlo nella gara che, come insieme, è appena dietro la finale di Londra: Rudisha quinto in 1’42”98, tanto per dire. Davanti a tutti lui, Amos, in 1’42”45. E’ il velocissimo prologo a quanto offre sulla pista dell’Hampden Park dove diventa campione di quel poco d’Impero che esiste ancora. “A un certo punto mi sono sentito un po’ chiuso, ma sono riuscito a liberarmi”. E quando si libera, quelle gambe girano e quelle braccia sbattono come ali.

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