40 anni da regina: l’oro eterno di Sara Simeoni

24 Luglio 2020

Un trionfo che ha segnato la storia dello sport italiano: il 26 luglio, domenica, i quarant’anni della vittoria olimpica a Mosca '80 nell’alto, impresa che ha consacrato l’Atleta Azzurra del XX secolo

di Giorgio Cimbrico

“C’è ancora qualcosa da dire?”, sorride Sara Simeoni mentre un gruppetto di volontari del meeting di Savona vogliono posare con lei. A occhio, hanno tra i venti e i venticinque anni ma l’apparire di questa signora che ora porta capelli corti e biondi smuove in loro ricordi indiretti, narrazioni, filmati, immagini di una ragazza dalla chioma scura e arricciata, una medusesca moda del tempo, dalle braccia spalancate, dallo sguardo che, almeno per un attimo, esprime una giusta esaltazione: record del mondo, record del mondo, titolo europeo e ora, 26 luglio 1980, la medaglia d’oro olimpica. Quando si è trattato di decidere chi sia stata l’Atleta Azzurra del XX secolo, la scelta si risolse in formalità: lei. Ben infissa nella storia, amata da chi non l’ha mai vista saltare.

Di quei giorni moscoviti esistono altre immagini. In una, cerimonia d’apertura, Sara indossa la divisa della squadra Coni, un tailleur che lei porta con elegante disinvoltura. Il tricolore non c’è e non ci sarà neppure il giorno dopo, il 27, quando andrà sul podio spendendo le lacrime avanzate. L’inno olimpico non è quello di Mameli ma riesce a essere coinvolgente. Il Lenin è ancora in pietra molto cruda, niente a che vedere con la trasformazione all’americana subita dopo la caduta dell’Urss. Gli applausi sono caldi, l’aria di Mosca anche.

“C’è ancora qualcosa da dire?”. Se Sara fosse il pianista di Casablanca, la pregheremmo di “suonarla” ancora una volta, quella finale. E così non resta che rivolgersi a un’altra musa, quella della danza, Tersicore, passeggera presenza della sua infanzia. Quella finale come uno spettacolo di danza moderna, sullo stile di Martha Graham: sentimenti che scaturiscono dai corpi, dai gesti, con una trama, uno scioglimento.

Drammatico, lieto, coinvolgente.

Sulla pedana i muscoli crepitano, i tendini cigolano come le cime di una nave assalita dal fortunale. Tre errori a 1,94, fuori: Rosemarie Ackermann rimbalza sui sacconi, si porta le mani al viso come per dire “ma cosa ho combinato?”, accenna un sorriso triste che rende ancor più malinconico il volto da piccola fiammiferaia e va a rifugiarsi ai confini della pedana. Darà un’occhiata, si sforzerà di incitare Jutta Kirst, ma sa bene che è inutile perché l’italiana ha un’arma affilata: un terribile temperamento. Difficilissimo fregarla. Rosemarie ci è riuscita solo nei suoi momenti più nitidi. Come quattro anni prima a Montreal, ma quella aveva saputo vender cara la pelle e sino a 1,91 le aveva alitato sul collo.

Qui tutto finisce rapidamente: a 1,97 si arenano sia Jutta sia Urszula Kielan, la polacca dall’aspetto efebico che riporta a Jacek Wszola e anche l’italiana sbaglia, ma una volta sola. Alla seconda, quando ricade, alza al cielo gli occhi, batte le mani, scuote la testa, tutto in una sequenza rapida.

Dopo il sesto posto di Monaco ’72 (nel giorno di Ulrike Meyfarth bambina prodigio e del giudice tedesco che assesta un bel calcio ai sacchi mentre l’asticella ballonzola e vibra dopo l’ultimo salto di Yordanka Blagoeva), dopo l’argento di Montreal, Sara Simeoni è là in cima e c’è il tempo di notare che i calzettoni sono ben tirati quasi al ginocchio e che Erminio Azzaro ha divorato un pacchetto di Muratti (a quel tempo al Lenin, come dappertutto, si fumava) e i mozziconi sono lì attorno, prove schiaccianti, e schiacciate, dell’amore del fidanzato e della passione del tecnico.

Sara fa il giro della pedana, abbraccia le altre, si commuove e si commuoverà sul podio. Al Lenin, la parabola della ragazza di Rivoli Veronese tocca il punto più alto. E nessuno ha mai potuto dire che abbia vinto una gara in scala ridotta. Le forti c’erano. Tutte. Quella sera, dopo la commozione, i brindisi. Sara ha sempre apprezzato un buon bicchiere: il bianco di Terracina nei suoi lunghi periodi formiani e il rosso delle sue parti, Amarone possibilmente.

Non sarebbe finita lì: il “de profundis” cantato (e zittito) dopo l’infortunio di Helsinki mondiale, la gara senza aggettivi di Los Angeles, quando Ulrike tremò di fronte all’ultima mossa della Regina.

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