Olimpiadi: azzurre in alto a cinque cerchi

19 Agosto 2016

Alla vigilia della finale di Rio 2016 con Trost e Rossit, riviviamo le altre edizioni con protagoniste italiane: Simeoni, Bevilacqua e Di Martino

di Giorgio Cimbrico

Prima delle due friulane che finiscono in T, la lettera che assomiglia a un ritto su cui appoggiare l’asticella, una veronese, una pugliese, una campana. La prima immagine è quella che non si dimentica mai, una foto che qualcuno ha trasformato in poster o che, come un reperto, ha depositato nell’archivio dei momenti meravigliosamente piacevoli, eccitanti. Sara che non ha bisogno del cognome - occhi accesi, capelli ricciuti - allarga le braccia e le trasforma in ali: 26 luglio 1980, stadio Lenin, a 1,97 è fatta. Rosemarie Ackermann, l’Horine del pianeta donna, è dietro, neanche sul podio: l’avversaria più ispida alla fine si rivela Urszula Kielan, polacca, 1,94, giusto la quota che per un attimo fa tremare Sara, un errore prima di rimediare e andare all’assalto di 1,97 e lì risolvere, catturare quel che le era sfuggito quattro anni prima a Montreal (seconda con 1,91, a due cm da Rosemarie) per dare inizio alla sua irresistibile ascesa nell’anno magico, il 1978 della sua rivoluzione, due record del mondo in 27 giorni a 2,01 e la magnifica battaglia vinta sulla collina praghese di Strahov con l’eterna avversaria dal volto di piccola fiammiferaia.

La signora Simeoni-Azzaro è una miniera paragonabile alla vena preziosa che corre sotto Johannesburg, è l’irriducibilità dei purosangue. E così la macchina del tempo porta al 10 agosto 1984, Coliseum di Los Angeles, un anno da quando Sara era uscita in barella dall’Olimpico di Helsinki, casa dei primi Mondiali, e tanti, senza voler fare i corvi, avevano cantato il de profundis della Più Grande: il titolo non è onorifico, ma confermato dal referendum che investiva le imprese azzurre del XX secolo. Quel giorno, il capolavoro della maturità, il ritorno al di là dei 2,00, la minaccia agitata sotto gli occhi di Ulrike Meyfarth, la più giovane campionessa olimpica (aveva sedici anni) che a Los Angeles, dodici anni dopo, divenne anche la più anziana padrona del salto in alto: il record di longevità sarebbe passato nel ’96 a una 31enne Stefka Kostadinova. A Monaco di Baviera ’72 era presente anche una 19enne Sara che salì a 1,85, sesta, giusto una posizione davanti a chi sarebbe diventata punto di riferimento: ancora e sempre Rosemarie, al tempo signorina Witschas.

Dodici anni dopo, ancora negli Usa, ad Atlanta, la foggiana Antonella Bevilacqua scavalcò 1,99, finì ai piedi del podio occupato da tre duemetriste (Kostadinova 2,05, la greca Niki Bakogianni 2,03, la filiforme ucraina Inga Babakova 2,01), ma quel quarto posto e quella misura vennero cancellati da un verdetto Iaaf per positività al doping antecedente ai Giochi.

Con l’Olimpiade non ha avuto fortuna Antonietta Di Martino che, a dire il vero, sulla sorte avversa ha da riflettere quanto faceva Amleto sugli spalti del castello di Elsinore, ma senza farne drammi lancinanti: la sua forza è stata anche la sua lievità, la sua luce. La molla volante di Cava de’ Tirreni, la donna che scardinò tabelle record che sembravano tavole della legge scritta da Sara, sia al coperto, sino al vertice assoluto fissato a 2,04, sia all’aperto, con 2,03, ha un ruolino a cinque cerchi sbrigabile in poche parole: decima a Pechino con 1,93, nella serata che diventò luminosissima per la miope Tia Hellebaut.

Ora, la finale più frequentata e affollata della storia, in diciassette all’insegna di un equilibrio che qualcuna dovrà spezzare. Quell’1,97 del Lenin può essere un’ispirazione, un’immaginetta che Alessia e Desirée dovrebbero mettere nello zaino per mostrarla a Ruth Beitia: lei, per età, di Sara ha ricordi vividi.

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OLIMPIADI RIO 2016: LA GUIDA ALLE GARE

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