Coppa Europa story: i 75mila di Torino

05 Agosto 2019

Quarant'anni fa la prima finale ospitata in Italia: un pubblico caldissimo per Mennea, Simeoni e due record del mondo. Battaglie epiche come a Kiev 1967 tra Urss e le due Germanie

di Giorgio Cimbrico

Le cose vecchie possono funzionare, come gli orologi di marca o scarpe fatte a mano, e così dalla prossima edizione la Coppa Europa, pardon il campionato europeo a squadre, tornerà a essere una sfida a otto. Il confronto diretto, da un capo all’altro (senza l’orpello delle batterie e delle finali A e B), era stato il sapore forte impresso e imposto dal creatore, Bruno Zauli, sino a raggiungere il climax della battaglia. A quel tempo la parola format non andava di moda.

Esempi a non finire in questa antica e nobilissima chanson de geste: il primo che viene in mente è legato alla finale di Kiev 1967, la seconda della storia, un ispido testa a testa tra Unione Sovietica e le due Germanie, segnato da capovolgimenti, sorpassi e controsorpassi. A esaminare le squadre in campo, i sovietici con falce e martello sembravano senza problemi, ma sia i tedeschi con martello, compasso e fascio di grano, sia i federali con aquila seppero vendere cara la pelle. I Ddr raccolsero quasi il massimo (tre vittorie e un secondo posto) nelle corse tra gli 800 e i 10000, scandite dalla doppietta di Manfred Matuschewski e dal primo e secondo posto di Jurgen Haase. I padroni di casa erano fortissimi nei concorsi ma anche i “compagni” tedeschi avevano le loro stelle. Uno era Wolfgang Nordwig, detto faccia di poker: bocca sottile, e occhi penetranti. Otto punti vitali dopo aver lasciato a cinque cm (5,10 a 5,05) Gennady Bliznetsov. Quando i russi calarono i loro assi, i tedeschi non cedettero: Manfred Stolle tenne il secondo posto attaccandosi alle basette XXL di Janis Lusis e il poco titolato Hans Jurgen Ruckborn ingaggiò battaglia con un giovanotto che veniva da un angolo di Caucaso chiamato Abkhazia e che tutti avrebbero imparato a conoscere: Viktor Saneyev. Igor Ter Ovanesian, 8,14 ventoso, e il martellista Romuald Klim, teorico del lancio piatto, sembrarono spianare definitivamente la strada, che si rivelò terribilmente accidentata per il ritorno veemente della Germania Federale, guidata da Bodo Tummler, da Franz Josef Kemper e da Josef Schwarz. 

La 4x400 divenne una lotta selvaggia: dietro la Polonia del “capitano coraggioso” Andrzej Badenski, i tedeschi federali e i tedeschi socialisti. Russi dietro, in uno scenario degno di Hitchcock. A quel tempo la grafica televisiva non era ancora entrata nemmeno nella puerizia e l’appassionato da casa se la cavava con carta e penna aspettando la conferma sul video, che regalava caratteri simili a quelli delle tavolette del codice di Hammurabi: Urss 81, Ddr 80, Frg 80 fu il verdetto, in fondo alla sfida infernale. La Germania Est avrebbe risposto con gli interessi tre anni dopo, a Stoccolma

Ma è anche tempo per il 40° anniversario della finale di Torino. Secondo protagonisti, testimoni, veterani e suiveur, la prima giornata, 4 agosto 1979, può meritare l’etichetta di lungo momento tra i più vibranti nella storia dell’atletica continentale e non solo. In quel sabato molto caldo, in una città chiusa per ferie, in un Comunale che, bilancio finale, offrì il commovente miracolo di 75.000 spettatori in due giornate, l’atletica a squadre divenne atletica di solisti e soliste, in un assieme perfetto, degno di un grande allestimento musicale.

C’era un sacro record europeo di David Hemery detto Drake, parte della stordente collezione messicana, e Harald Schmid lo abbatté in 47.85 e un’ora dopo il baffuto dell’Assia scese ancora in pista per i 400, vinti in 45.31. Lo stupore si diffondeva come un gas esilarante: il 48.89 di pochi giorni prima a Potsdam divenne 48.60 assegnando a Marita Koch il quinto dei suoi sette record del mondo. E mentre Lutz Dombrowski, giovane e sconosciuto, iniziava a disegnare parabole (la più lunga lo avrebbe fatto atterrare a 8,31), Pietro Mennea, memore del Grande Slam praghese, infilzava Marian Woronin, Allan Wells e il “carro armato” Eugen Ray nel più veloce tempo, 10.15, di un velocista azzurro. Il record del mondo di quelle che qualcuno aveva etichettato “panzerine” (42.09, giusto un centesimo di progresso, con Christina Brehmer a sostituire un’ancora affaticata Koch) chiuse il primo atto.

Quanto a emozioni, il secondo giorno sarebbe stato quasi altrettanto generoso: la piccola vendetta di Rosemarie Ackermann su Sara Simeoni (1,99 a 1,94) a meno di un anno dallo scontro di dame sulla collina di Strahov; la furia selvaggia dello scozzese volante Wells che condannò Pietro alla sconfitta casalinga (trentotto giorni dopo, su quella distanza, sarebbe arrivato il 19.72 ancora solido come la rocca di Gibilterra) in un match destinato a un drammatico seguito moscovita; la cavalcata tra siepi e riviera di Mariano Scartezzini che iniziò a costruire quella sua ruvida fama di uomo di Coppa.

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