Una storia al giorno

24 Ottobre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

24 ottobre. Quindici anni fa è morto Pino Dordoni e tutti abbiamo pianto. Abdon Pamich disse che aveva perso un amico con cui aveva passato una vita gomito a gomito; Maurizio Damilano disse poco: qualche giorno prima era andato a trovarlo e aveva capito. Per l’ultima volta Pino gli aveva offerto quel suo sorriso sottile.   

“Il giudice era Libotte. Sai, Armando Libotte, quello che organizzava la 100 km del Canton Ticino. Lo conoscevo bene, eravamo amici. E quando comincio a inquadrare la torre dello stadio, gli dico: senti,Armando, ti dispiace tenermi gli occhiali scuri e il berrettino? Non si può mica vincere l’Olimpiade a capo coperto e con gli occhiali sul naso. E poi, già che ci sei, prestami anche il pettine che voglio rendermi presentabile. E’ stato allora che i fotografi e i cineoperatori si sono scatenati per riprendere la scena. Figurarsi, uno che marcia e si pettina anche se i capelli erano già pochi. E quelli arrivati in ritardo mi dicevano, repeat, again, fallo di nuovo. E io un volta ci sono stato, poi ho detto basta: ragazzi, non voglio mica perdere la medaglia d’oro per voi. Dolezal era un vecchio cagnaccio: otto minuti avevo su di lui e vinsi per due”.

E questo era il ricordo che Pino riservava agli amici, il ricordo del 21 luglio 1952 quando si trasformò in un’icona: il viso ispirato, trasfigurato, mentre nello stadio di Helsinki taglia il traguardo della 50 km e diventa una delle immagini della storia dello sport azzurro, una di quelle che non sbiadiscono. E rievocando andava via tutto d’un fiato, una parola dopo l’altra, come i passi lungo i viali alberati, sulla Mannhereimer, a calpestare i binari del tram, senza un’occhiata per i laghetti, per la mole bianca di Finlandia, per le betulle. Un lunedì di pioggerella fine che odorava d’autunno fu il suo giorno, il giorno della prima medaglia d’oro della spedizione italiana “tanto che divenni il cocco di Giulio Onesti. Poi venne l’oro di Irene Camber nel fioretto, ma a rompere il ghiaccio toccò a me e per qualche giorno ebbi tutti gli onori, persino una macchina a disposizione. Ma l’omaggio più vero, più sincero, inaspettato me lo regalarono i russi: era la prima volta che venivano ai Giochi e non erano nemmeno nel nostro villaggio. Noi stavamo a Kapyla, in un blocco di case popolari, loro ad Otaniemi, nella foresta. Il giorno dopo la vittoria, andai da uno di loro, un amico. Gli altri erano sul cancello, applaudivano, e io chiesi: chi applaudono? Applaudono te, mi rispose”.

Pino Dordoni

Perchè Pino era Mister Walking, il Signor Marcia, perfetto, impeccabile in uno stile quanto diverso rispetto a quello d’oggi, stravolto dalle frequenze febbrili, dalle ampiezze sempre più ridotte.

Campione d’Europa nel ’50 all’Heysel di Bruxelles, sull’esito dei Giochi Dordoni aveva pochi dubbi, una convinzione maturata durante il lungo viaggio verso Suomi: “Un viaggio eterno: 58 ore di treno da Milano. E a Turku piombarono i vagoni, sì, misero egli schermi di lamiera sui finestrini: stavamo per passare nella zona dell’istmo di Carelia, ancora occupato dai sovietici. Più di due giorni avevo avuto dalla Centrale alla stazione di Helsinki per riflettere. Ero convinto di essermi lasciato alle spalle tante migliaia di chilometri per un solo scopo: vincere. Non avevo un dubbio, ero il più forte. Solo un timore: i piedi, che non è una roba da ridere per uno che marcia. Negli ultimi allenamenti, a Piacenza, avevo rinunciato a usare le mie scarpette da gara. Erano guanti, non volevo usurarle, erano le uniche avevo. Oggi quelli forti ne hanno anche otto paia. Così calzai quel che trovai, un paio di scarpe da basket, con il puntale in gomma. Mi rovinai le unghie degli alluci e Giorgio Oberweger, il ct, prese il toro per le corna, lui era fatto così: prima che partissimo mi portò da un medico milanese che me le estirpò. Così partii per l’Olimpiade con una fasciatura e con un’infezione che pulsava. Ma quel giorno, al 35° chilometro, quando diedi lo scossone decisivo, dimenticai di essere il padrone di quelle dita disastrate”.

Via, senza mai rischiare l’ammonizione. In quei momenti sparivano il dolore e le traversie di un’esistenza condotta con la fierezza dell’integralista. Perché Pino non ha mai nascosto e non ha mai smesso di ripetere che lui era da quell’altra parte, anche dopo il 25 aprile “quando l’Italia si popolò di partigiani”. Lui a diciott’anni volontario nella Guardia Nazionale Repubblica, con quelli di Salò. E dopo la Liberazione, prigionia nel campo di Edolo e poi a Tombolo, nella pineta frequentata dalle segnorine. “E a novembre del ’45 a casa, a Piacenza. Per finire a sbattere in vecchi amici che non salutavano, che cambiavano marciapiede, e per sentirsi rispondere che lavoro non ce n’era. Ne rimediai uno un paio d’anni dopo: fattorino all’Associazione Commercianti, 27.000 lire al mese, meglio che niente. A scaldarmi la vita c’era la marcia. Ma c’erano anche le delusioni: a Londra ’48 fuori nelle batterie dei 10 chilometri, troppo corti per me”. Lo sport di Pino non era ricco: “Quando, dopo Helsinki, il Coni mi diede la possibilità di scegliere – un medaglione d’oro o il corrispettivo in soldi, 700.000 lire – non ebbi un’esitazione: presi i soldi”. E alla fine del racconto c’era sempre un sorriso beffardo, lo stesso che non ammainò anche quando gli dissero del cancro che portava addosso e dentro e che uccise il Cavaliere.

A Sesto San Giovanni, vecchia roccaforte rossa, Stalingrado d’Italia, hanno chiamato con il suo nome il campo dove Antonio La Torre ha cresciuto Ivano Brugnetti, dove Pietro Pastorini allenava Michele Didoni. Lui ne sarebbe stato felice.

Giorgio Cimbrico



Condividi con
Seguici su: