Un giorno, un'impresa

03 Giugno 2013

Appuntamento quotidiano con le storie dell'atletica

3 giugno. Trentuno anni fa nella vecchia e gloriosa Stalingrad, oggi Volgograd, nasce Yelena Isinbayeva, figlia di una ragazza russa e di un elettricista emigrato dal caucasico Daghestan, appartenente alla minoranza dei Tabarasan. Non navigavano nei rubli e così, per usare un’immagine scontata , fecero salti mortali perché sfruttasse le sue doti fisiche, prima nella ginnastica, poi altrove. Sono stati ripagati da 28 voli oltre il record del mondo e dalla prima ascensione di una donna oltre i 5,00. Lena è stata così grande che il giudizio rischia di essere inquinato da un profondo innamoramento, dal fascino accattivante con cui ha imbrillantinato i suoi record, la sua collezione di titoli. Zarina, ma anche Occhioni Blu. Bella e brava, dicevano gli antichi greci, unendo aspetto e sostanza. Sin dalla prima volta in cui capitò di incontrarla, dieci anni fa, ai Mondiali di Parigi. Unico particolare negativo: una cattiva depilazione delle gambe.    

Non resta che riviverla, rivederla in azione in una delle sue serate più grandi, quasi cinque anni fa. Non lontanissimo da Pechino, quando lo spropositato confine tra Russia e Cina era percorso dalla corrente elettrica della rivoluzione, della guerra civile, donne come lei, magari principesse, magari duchesse, inseguivano treni carichi d’oro: quello con il punzone dell’aquila zarista era il più puro. Quell’aquila è addosso a Lena che d’oro ne porta via solo un pezzetto, il secondo con i cinque cerchi, da bagnare con lacrime sincere. Il condimento è il solito: record mondiale, 5,05, a quel punto il venticinquesimo. Un capolavoro, ed è bene spiegare il perché.

 Gara già vinta a 4,85: l’americana Jennifer Stuczynski, presentata come risposta Usa allo strapotere della ragazza nata sul Volga, si spegne a 4,90, mentre Yelena sonnecchia come Napoleone prima della battaglia di Marengo. Non è che faccia un gran freddo, ma si è portata un piumone bianco e lo modella a capanna per starsene in pace, concentrarsi. Ecco, la concentrazione: può scarseggiare quando nessuna riesce a impegnare, quando anche le gare più importanti si risolvono così, in fretta; quando il pubblico schiamazza per quel che capita in pista. La capanna è come una mini isba. O magari è una di quelle casette che le monelle di una volta si costruivano su un albero, in giardino. Mani nere di pece, occhi ardesia, abbronzata (il sole di Formia fa miracoli), Yelena è una professionista: l’Olimpiade va rispettata, vediamo di combinare qualcosa di buon anche se qui non c’è un euro, non c’è una sterlina né di ingaggio, né di bonus per alzare ancora il cielo sopra il mondo. Il record olimpico è suo, 4,91: ad Atene era anche record mondiale. Ne son passate di Yelene sopra le asticelle. Alla terza è fatta.

Regalo speciale per il pubblico di Pechino, per quelli del Cio, per il mondo: il record di Montecarlo è fresco, venti giorni di vita, e  Vitali Petrov, l’uomo che portò Bubka a scalare 6 metri, dice che un centimetro in più ci può stare. Una parte del capolavoro sta qui: sconcentrarsi e tornare a concentrarsi. Yelena è alla terza recerche, al terzo ritrovamento. La solita chiacchierata con l’asta: “Non dirò mai cosa dico”. Formule magiche? “Oh asta delle mie brame, chi è la più alta del reame?”. Filastrocche della tradizione russa? “Asta, asta, sii fidata, ii tuo dono è la fiondata”. Forse è tutto molto più banale: ripassa tutto quello che deve fare, la rincorsa, l’imbucata, la capovolta in aria, il volo sopra l’asticella.

Se Michael Phelps conta le bracciate, anche Yelena deve mettere in fila azioni tanto vicine e diverse. Due errori, che sono i salti sei e sette. Torna un attimo sotto la casina bianca: quando ne esce, sorride, poi si fa seria, dialoga, butta gli occhi verso il cielo. Neanche una goccia di pioggia: arriverà poco dopo. Lei è una maga alla rovescia, una Baba Yaga che sa tenerla lontana: a Helsinki, nel 2005, otto giorni di pioggia spessa e impietosa e una parentesi di sole per lei, solo per i suoi occhi: 5,01, record del mondo e un grande recital con i fotografi che sgambettavano affannati per seguirla e lei che si portava un foulard davanti al volto per diventare una Sheherazade.

L’ultima parte della spiegazione sul capolavoro si svolge in aria, a 5,05 di altezza: non c’è gran margine e allora sull’asticella si avvolge usando quella bella tartaruga che porta sull’addome. Pulito, essenziale. In curva, Vitali, circondato da cinesi festanti, è color ciliegia e commosso. Le gioie che gli ha dato Bubka gliele sta ridonando questa ragazza che su Sergei opera il sorpasso: due medagle d’oro contro una. Per il resto, il conto è ancora a favore dello zar: 35 record del mondo, 6 titoli mondiali. “Arrivo sino a Londra, posso saltare 5,15, forse 5,20”.  Jennifer Stuczynski è bigia in volto, Svetlana Feofanova, che non può sopportare Yelena, che non l’ha mai sopportata, guarda a occhi spenti. “Non è stata una gara molto combattuta”, ride lei, così carina, così assassina.

E un anno dopo, all’Olympiastadion di Berlino, è necessario scrivere la triste cronaca di una deposizione dal trono. Ore 18: un bacino al mondo, allungato con un dito, e un lampo malizioso. Poi, per Yelena, un’oretta di siesta mentre le altre si scannano. Isinbayeva, prima prova a 4,75, annunciano gli speaker: l’asticella rimane al suo posto, solo che Yelena passa sotto. In un angolo Anna Rogowska, bionda polacca dal volto nervoso, stringe la dote di quella quota. E’ diventata famosa: a pari misura (4,68), a Londra, ha avuto la meglio sulla regina interrompendo una catena di 18 vittorie. Yelena tiene due salti a 4,80, parla alla sua bacchettona magica, entra veloce ma quello svincolo che di solito è una meraviglia, è un’azione affrettata, confusa. E’ all’angolo e si alzano voci: nervosismo, ginocchio dolente, problemi tecnici in una stagione che, dopo il volo al coperto di Donetsk (un altro 5,00, per la collezione esclusiva che a Zurigo, pochi giorni dopo, in un’inventata resurrezione, toccherà quota sette) si era trascinata in una normalità che non fa per lei, il divorzio dall’Adidas per abbracciare la cinese Li Ning che le passa un milione e mezzo di dollari l’anno.

Tante cose che si affollano, che offuscano il nitore. Alle 20,40, nel rombare del pubblico per il finale selvaggio delle siepi (la vecchia e “potenziata”spagnola Marta Dominguez mette in fila russe e kenyane spedendo a gambe all’aria Gulnara Galkina e bruciando un altro oro che la Russia riteneva in cassaforte)  il terzo errore, netto, brutto. Smarrite le chiavi di un regno iniziato a Atene, proseguito a Helsinki, a Osaka, a Pechino. Neanche ultima, senza misura: una presenza che diventa un’assenza.

Fallisce anche i Mondiali indoor di Doha, decide sia meglio fermarsi per mesi sabbatici e di riflessione, a Daegu è grigiamente sesta e nell’inverno che segue, a Stoccolma, torna a varcare azzurri spazi sotto un tetto. A Londra un bronzo senza un sorriso. Ora a Mosca. Il capitano Lena punta all’addio: deve essere a una buona altezza.

Giorgio Cimbrico



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