Traguardo 30 anni per l'oro di Gelindo Bordin

02 Ottobre 2018

Riviviamo la storica vittoria olimpica del maratoneta azzurro ai Giochi di Seul nel 1988

di Giorgio Cimbrico

Trent’anni dopo è sempre satanico il ghigno di Gelindo Bordin, è sempre stupita l’espressione di Ahmed Salah. Seul, 2 ottobre 1988, la maratona olimpica decisa da un sorpasso all’ultimo miglio, in fondo a una ridistribuzione di carte, di ruoli, di piazzamenti dei Mondiali romani di un anno prima. L’immagine del somalo di Gibuti che guarda a sinistra e non vede nessuno e poi si volta a destra e inquadra, a tre metri, quel sorriso diabolico e gioioso è finita su molti libri, è entrata far parte dei simboli di Olimpia.

Una maratona difficile, corsa in un clima umido, sorvegliata da un cordone record di 36.000 poliziotti, quasi 1000 a chilometro, tirata a lungo dal piccolo tanzaniano Juma Ikangaa prima che il comando delle operazioni venisse preso dal giapponese Takeyuki Nakayama, due volte vincitore nella capitale coreana, da Salah, che sul percorso di Seul aveva vinto un anno prima, e dal keniano, di formazione giapponese, Douglas Wakiihuri, campione del mondo e favorito per l’accoppiata di corone.

Quella che alla fine Bordin, campione d’Europa a Stoccarda ’86, etichettò come battaglia, si sviluppò in un finale drammatico, scandito da continui colpi di scena. La fuga di Salah e di Nakayama si rivelò fatale per il giapponese che iniziò a boccheggiare al 37° chilometro dopo che il gruppetto di testa, che comprendeva anche l’altro giapponese Toshihiko Seko, il britannico Charles Spedding e Ikangaa, era andato in pezzi.

A quel punto Bordin, aggrappato al terzo posto, diede l’idea di puntare al bronzo, come a Roma. Ma proprio in quei momenti realizzò che, si fosse astratto dai crampi che iniziavano ad attanagliarlo, avrebbe potuto ripetere quella rimonta da dietro che l’aveva portato al podio mondiale.

VIDEO | LA VITTORIA DI GELINDO BORDIN ALLE OLIMPIADI DI SEUL 1988

“Ho preso come riferimento la schiena di Wakiihuri - raccontò - e mi accorsi che guadagnavo metro dopo metro. Al 40° lo affiancai e lo passai”. Un miglio alla fine. Salah, che Bordin aveva incrociato la prima volta nella Coppa del Mondo di Hiroshima 1985, è davanti, una figura sottile e dubbiosa: arranca su quelle gambe che sembrano matite, si volta spesso, avverte che qualcuno lo bracca. Lo stadio è vicino. Il sorpasso che, come usa dire oggi, diventa un’icona è incastonato dentro quell’aria spessa, asiatica. Gelindo dà un’occhiata e va, Salah rompe come un trottatore che ha smarrito il senso del ritmo.

Entra nello stadio, taglia il traguardo, bacia la pista, come tutti gli esploratori che si rispettino (diventare campione olimpico non è approdare in un mondo nuovo?) e il suo aspetto di scultura lignea viene ancora più definito dalla fatica e dal prosciugamento a cui è andato incontro in quelle due ore e dieci minuti di sauna corsa a venti all’ora. “Troppo stanco per essere felice”, sono le prime parole (troppo felice per essere stanco era Luciano Gigliotti) ma si riprenderà presto e dopo qualche ora, a Casa Italia, la sua verve prenderà il sopravvento.

Sei mesi dopo Gelindo diede l’addio in diretta tv: era il 1° aprile. Altro ghigno satanico: era tutto uno scherzo, naturalmente, ma trascurabile rispetto a quello che aveva giocato a Salah. Il sulfureo avrebbe fatto ancora in tempo a metter le mani sulla maratona di Boston (un prezioso pezzo di inimitabile antiquariato da conservare) e su un secondo titolo europeo, sui saliscendi della calda Spalato.

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