Norton, ultimo e nella storia

12 Novembre 2015

Al velocista statunitense spetta il titolo di atleta più sfortunato dei Giochi Olimpici di Roma 1960: ultimo nei 100 e nei 200 metri e responsabile del disastro della 4x100 USA

di Giorgio Cimbrico

Otis Ray Norton ha 78 anni  e vive a Reno, Nevada, un posto dal divorzio facile. Lui divorziò dalla gloria a Roma, tra il 1° e l’8 settembre del 1960: ultimo nei 100, ultimo nei 200, responsabile del disastro della 4x100 che corse in un inutile record del mondo. Con affetto: nessuno peggio di lui.
Può capitare di finire in una brutta settimana, ma quella di Ray prese la sembianze del territorio oscuro della Regina delle Notte. Aveva perduto la forma, non aveva i nervi saldi a sufficienza? Neppure lui sa rispondere a queste domande che devono ronzargli nelle orecchie da mezzo secolo abbondante. Quel che è certo è che da lui ci si attendeva di più, molto di più, perché c’era il suo nome in testa alla classifica, nata alla fine del 1959, dell’Atleta Americano dell’Anno.

La ragione è presto spiegata: dopo la doppietta 100-200 in Usa-Urss, lo scontro caldo della Guerra Fredda, aveva fatto tris ai Giochi Panamericani di Chicago e in quella formidabile stagione, sulla pista di San José, sempre generosa con lui, aveva uguagliato il record del mondo dei 100: 10”1 come Willie Williams, Ira Murchison e Leamon King.  Era il naturale sviluppo di quanto aveva fatto intravvedere un anno prima, quando sotto la guida del leggendario Lloyd “Bud” Winter (che in seguitò allenò Tommie Smith) era sceso a 9”3 nelle 100 yards, pareggiando un altro record del mondo, in mano a un nugolo di velocisti americani, una galleria di grandi che comprendeva tra gli altri Mel Patton e Bobby Morrow.

Il 1960 era iniziato e proseguito sotto eccellenti auspici: Ray si era ripetuto a 9”3 e, specialista nell’arte del pareggiare tempi record altrui, si era portato a 20”6 nelle yards e alla stessa prestazione sulla distanza metrica. Il 28 maggio, a Wolverhampton, in una riunione di contea, il britannico Peter Radford aveva scalato il picco – 20”5 – e poco più di un mese dopo, ai Trials di Stanford, era arrivata la risposta degli americani: 20”5 di Stone Johnson in batteria,  20”5 di Norton in finale. Agli scontri olimpici sulla pista romana in ben lisciata terra rossa mancavano sessanta giorni e in questa parentesi erano arrivati i 10”0 di Armin Hary, al Weltklasse di Zurigo, e di Harry Jerome, ai Trials canadesi di Saskatoon. Le storiche performance non privarono Ray di un pronostico favorevole che finì per pesargli addosso come un macigno.

Iniziò a scrollarsi di dosso il fardello il 1° settembre finendo sesto (a quel tempo sei erano le corsie e sei i finalisti) a un metro e mezzo da Hary e da David Sime. I tempi elettrici ufficiosi dicono 10”32 a 10”35: Ray Corse in in 10”50. Il 3 settembre, in quello che molti (tra questi c’è anche chi scrive) reputano il giorno più luminoso nella storia dello sport italiano, Norton rimediò buoni quattro metri da Livio Berruti: 20”62 a 21”09. I sordi bump bump che Livio sentì avvicinarsi alle sue spalle non erano di Ray, ma di Lester Carney, terzo ai Trials, secondo ai Giochi. Johson e Norton, dominatori delle selezioni, finirono quinto e sesto.

Rimaneva la staffetta che venne corsa l’8 settembre, data infausta per l’Italia e, diciassette anni dopo, per gli Usa e per Ray che anticipò il cambio con Frank Budd, non se ne avvide, corse una robusta frazione in rimonta per consegnare il bastone a Johnson che a sua volta lo trasmise a Sime: vittoria e record del mondo furono cancellati dalla squalifica. Nelle tre gare di sprint, gli americani, venuti per fare piazza pulita, avevano rimediato due medaglie d’argento. Norton chiuse con l’atletica e di lì a qualche mese portò la sua gran stazza (quasi 1,90 per 80 kg abbondanti) ai San Francisco 49ers, ma la sua carriera nel football non fu né lunga (due stagioni) né particolarmente gloriosa.

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