Mondiali: il cacciatore dei 3000 siepi

15 Agosto 2015

Lo statunitense Evan Jager, dopo l'8:00.45 (con caduta all'ultima barriera) di Parigi, si candida ad un ruolo di outsider di lusso a Pechino

di Giorgio Cimbrico

Dopo anni, diventati decenni,di dominio, di monopolio insidiato soltanto dagli ultimi e ormai lontani interpreti europei (Anders Garderud, Bronislaw Malinowski, Francesco Panetta) e da un marocchino (Brahim Boulami) di non specchiata virtù, i saltafossi kenyani hanno visto incrinare la loro sicurezza con l’arrivo in scena di un giovanotto dai fini e lunghi capelli biondi legati in una crocchia, nativo di una cittadina dell’Illinois che risveglia lontani profumi tribali: Algonquin. Evan Jager ha nel suo nome una minaccia: in tedesco Jager significa cacciatore, il cacciatore che si è inoltrato in una riserva con il progetto di sovvertire una tradizione, trasformarsi nell’uomo che morde il cane. Secondo i dettami di un giornalismo ormai passato in archivio, la notizia bramata da tutti. I rovesciamenti sono come il colpo di scena in un noir, lo svelamento in un dramma classico.

Un viaggio a ritroso nelle immagini, nelle cifre, negli albi d’oro non ha difficoltà alcuna a trasformarsi in una storia molto kenyana, a cominciare dall’apparizione messicana, vecchia ormai quasi mezzo secolo, di Amos Biwott e Benjamin Kogo che, superando con un’innocente naturalezza gli ostacoli e la riviera come un tronco o un fiumiciattolo improvvisamente comparsi lungo il loro cammino, fecero di quella distanza molto europea il regno degli uomini dell’altopiano affacciato sulla Rift Valley. C’era da stupirsi? No, perché le siepi sono la prova in cui regna il cambiamento di ritmo, la decelerazione che diventa improvvisa, quasi selvaggia accelerazione. La loro corsa, concentrata in otto minuti più o meno.

Dei primi venti uomini della storia, quindici sono kenyani (compreso naturalmente il qatarino Saif Shaheen, già Stephen Cherono, primatista mondiale da ormai undici anni), due francesi del Maghreb (Mahiedine Mekhissi, versato anche nell’arte dello striptease, e Bouabdellah Tahri, detto Bob), due marocchini (Boulami e Alì Ezzine) e un americano, Jager il cacciatore. Sotto gli 8’ sono andati in undici, dieci kenyani e Boulami. Evan, 26 anni, ci è andato vicinissimo a St Denis: 8’00”45 dopo una caduta sull’ultimo ostacolo che ha aperto la via a Jairus Birech ormai battuto. “A occhio, potevo finire in 7’57”.

Parole, da sottoscrivere, che arrivano da chi sa correre i 1500 sotto i 3’33” e i 5000 appena al di là dei 13’ e che ha un forte desiderio di spezzare una catena della felicità che ai Mondiali va avanti dal ’91, con la prima delle tre vittorie di Moses Kiptanui e che per il momento si è chiusa con un’altra tripletta, messa a segno da Ezekiel Kemboi, il più estroverso e sopra le righe della tribù.

La situazione è più o meno la stessa se viene preso in esame lo scenario olimpico: dopo Kogo, King Kip Keino che vinse a Monaco ’72 con un’esperienza risibile alle spalle, e percorso travolgente da Los Angeles a Londra con tre corridori di pelle bianca riusciti a trovare posto sul podio: l’americano Brian Diemer, il britannico Mark Rowland e il toscano Alessandro Lambruschini.

La cronologia del record del mondo risente ovviamente di questa schiacciante superiorità: da Benjamin Jipcho, primo sotto gli 8’20” a Henry Rono in uno dei quattro capitoli del suo leggendario 1978, da Peter Koech a Moses Kiptanui, che verrà ricordato come colui che forzò la fortezza degli 8’, da Wilson Boit Kipketer, che affiancò il record al titolo mondiale appena conquistato ad Atene, a Bernard Barmasai e al magnifico Shaheen sotto la bandiera bianco-amaranto del Qatar. Una storia a una sola dimensione e direzione, con la colonna sonora di quell’inno che pare un’alba che illumina le colline Ngong. Ma, oggi, con una non sottile vena di timore. Jager è pronto.

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