Mondiali Montagna: l'arte del marmo

07 Settembre 2014

Nel corso dei secoli, le gesta dell'atletica sono state scolpite da grandi maestri nel marmo, protagonista indiscusso Mondiali di corsa in montagna a Casette di Massa (14 settembre) e da cui vedrà la luce una statua dedicata a Mennea.

di Giorgio Cimbrico

Marmo pario, marmo apuano. Un bel pezzo di carne, diceva il capo scalpellino a Fidia dopo che il blocco era stato tagliato; un bel pezzo di carne assicurava il capo scalpellino a Michelangelo quando con un gran tonfo e in una polvere che lentamente si dissipava, la colonna finiva ai piedi della cava e il maestro, in cerca di perfetta materia prima, andava a dare un’occhiata, sincerandosi che non una crepa la solcasse.

Il marmo, bianco, puro, abbagliante quando, come diceva Buonarroti, è portato a polimento, è da sempre vita per l’arte. La figura è già dentro – ancora Michelangelo – si tratta solo di eliminare il superfluo. E così lo scultore diventa atleta calato in uno sforzo che può esser titanico, è poeta che immagina e narra una storia immobile e dinamica, finisce per avvertire le sensazioni del sensazioni del fisiologo: quello che sta creando non è un manichino, ma una figura di ossa e muscoli governati, al pari delle cime di una barca a vela, da tendini e legamenti. E così, quale può essere il soggetto ideale se non un atleta?

Molte delle opere create dalla scuola classica e sublime dell’Atene di Fidia, Prassitele, Skopas, sono andate perdute e possono esser rivissute attraverso calchi bronzei o copie romane, altre sono mutilate, ma non riescono a nascondere la bellezza assoluta. Sufficiente pensare a quella galleria di gesti regalata dai marmi Elgin, al British Museum, o alla tensione drammatica di Laocoonte, alla semplicità narrativa, degna del XX secolo, del Discobolo. E’ partendo da imitazioni e da resti che prende il via la missione michelangiolesca, e se i suoi antichi predecessori solcavano le onde per ricercare il meglio nelle cave delle isole al largo dell’Attica, lui, allevato da scalpellini da Settignano, saliva a cavallo per scendere di sella sotto quel massiccio di marmo affacciato sul mare: ne era così affascinato che progettò, nella sua mente percorsa da programmi febbrili e incalzanti, spesso irrealizzabili, un gigante da far scaturire dalla cima di una delle vette.

Tutte le sue creazioni, che in fretta si trasformano in creature, hanno una pulsione atletica, anche quando, come il David, paiono immobili, ma in attesa del gesto che determini la loro missione. E’ la forza insita nel marmo e di chi, lavorandolo, diventa demiurgo, è la spinta che porterà a ripercorrere quei sentieri apuani altri maestri alla ricerca delle radici dell’espressione più arcaica e così modernissima. Dopo un salto di 400 anni, ecco Henry Moore scrutare le vene di quel massiccio unico.

I Mondiali di corsa in montagna, ambientati in uno scenario che avrebbe fatto la gioia di Gustavo Doré, il più dantesco tra gli illustratori, sono l’occasione per un tuffo nella miniera nella materia più nobile, capace di regalare capolavori e di narrare la perfezione del corpo umano, delle sue potenzialità da esprimere in un’abitudine che pesca nella prima alba della civiltà: lo sport. Coincidono anche con un momento commovente: la definitiva consegna del blocco da cui Fabio Viale offrirà a noi e a chi verrà dopo di noi l’immagine di Pietro Mennea. In un frettoloso abbozzo di viaggio nel tempo, è affascinante pensare al ritrovamento di questa statua. Chissà chi era, chissà chi l’ha scolpita. I musei, in questo anno domini 3822, sono tutti virtuali, ma questa merita di essere esposta perché tutti la accarezzino con lo sguardo.

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