Francesco Panetta: 30 anni fa l'oro di Roma

05 Settembre 2017

Il 5 settembre del 1987 l'azzurro conquistava il titolo dei 3000 siepi ai Campionati del Mondo

di Giorgio Cimbrico

Francesco Panetta, il keniano di Calabria, il Pirata, il Bucaniere, l’inventore della fuga - in pista, non sulla tastiera -, il tipo che ha sempre parlato e corso svelto e deciso, che aveva, nella sua vasta scorta di generosità, la capacità di coinvolgere. Fanno trent’anni oggi da quel che riuscì a combinare all’Olimpico, un capitolo intriso di storicità: un europeo capace di spezzare il dominio di quelli che, con affetto, da tempo chiamiamo saltafossi keniani. L’ultimo, una specie di highlander. Per il momento chi si chiama cacciatore - Ewan Jager - non ci è riuscito.

Quando, il mese scorso, qualcuno si è messo a delirare sul successo delle americane sulle africane spingendosi a dire - fonte Usa - che si trattava di uno dei più grandi sovvertimenti nella storia dell’atletica, dello sport, noi italiani avremmo potuto rispondere che tutto sommato non eravamo molto stupiti e che c’eravamo già riusciti. Non noi, poveri voyeur, buoni al massimo a superare le siepi della sintassi, ma lui, Francesco, argento nei 10.000 dopo aver inseguito quel povero Paul Kipkoech, destinato a scomparire a 32 anni, e una settimana dopo campione del mondo di quella che Paolo Rosi chiamava trasposizione in pista della corsa campestre, in quei Mondiali che di recente abbiamo rievocato su Atletica. “Angeli e Demoni” era il titolo che accomunava giorni luminosi ad altri che si sarebbero rivelati molto oscuri: Maurizio Damilano, Gelindo Bordin, Alessandro Andrei, Stefka Kostadinova, Ben Johnson, Giovanni Evangelisti sono soltanto alcuni degli attori in un cast sterminato, ricco ancora di paesi - Urss, Ddr, Jugoslavia - che non esistono più.

Un anno prima, agli Europei di Stoccarda, Francesco aveva scelto un’avventura simile a quella di molti velisti, disadorni come lui nel loro magnifico coraggio: in quella fine d’agosto che assomigliava ad un autunno precoce, dentro quel grande guscio che ancora si chiamava Neckarstadion, decise di alzare le vele e andare in solitario, accumulò margine e a ogni passaggio la folla fitta - molto fitta, altri tempi... - mugolava o trasmetteva un’eco che era di ammirazione, di timore, guardandosi, tracciando punti interrogativi nell’aria: “E’ matto, ce la farà, lo prenderanno”. Lo presero sull’ultimo rettilineo e il suo destino pareva quello del gregario che aveva osato troppo in un’avventura senza senso e finisce in coda, senza più un goccio di respiro. E proprio in quel momento la reazione e la caparbietà si fusero e quelle ginocchia piegate ripresero a spingere e solo il tedesco est Hagen Melzer mise il naso davanti. Per venti centesimi.

Trent’anni fa scelse qualcosa di diverso: il crescendo, interpretato con una corsa di testa che assunse i contorni sempre più netti della spietatezza, capace di sfiatare chi provò a seguirlo, di rendere confuso lo scavalcamento della barriera a Joshua Kipkemboi che stramazzò a metà cammino. Val la pena cercare nelle fitte maglie della rete il filmato di quella finale: un recital da solista, con un lieve rallentamento solo nel finale. “Me la volevo godere a fondo”, disse, con quel sorriso sempre un po’ sgherro. Il titolo, il record italiano portato a 8:08.57, al tempo quarto crono di sempre. Melzer ripagato con gli interessi, staccato di quasi due secondi. Il pallido belga William Van Dijck ne prese tre e mezzo.

Nell’estate del ’94, in un altro Olimpico, quello di Helsinki, Francesco abbandonò canoni musicali per offrirne altri. Capitò quando, da campione europeo in carica (a Spalato aveva battuto dopo duro duello il britannico Mark Rowland) sorresse Sandro Lambruschini, evitò che capitombolasse, finì per lanciarlo verso un titolo che ebbe la dimensione della successione. Si commossero tutti, lui disse di aver fatto quel che doveva esser fatto.

VIDEO | LA VITTORIA DI FRANCESCO PANETTA NEI 3000 SIEPI AI MONDIALI DI ROMA 1987

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