Berruti 75 anni da campione

19 Maggio 2014

Compleanno speciale per il velocista azzurro, oro olimpico dei 200 metri a Roma 1960

di Giorgio Cimbrico

I parametri possono essere sinonimi di una certa rigidità, estranea a chi era leggero come Ariel, aereo come un gas esilarante. E così, con Livio Berruti che oggi arriva al traguardo dei 75 anni, in uno scontro tra poetica e solidità e in un tentativo di conciliazione tra questi registri degni del grande organo dell’atletica, non resta che fornire i dati, che riteniamo molto solidi, per una dimostrazione di tipo affettuoso e matematico: Berruti è stato l’autore del più grande gesto della storia sportiva italiana. Non lo dice lui, lo dicono i fatti. “In effetti quella semifinale era piuttosto dura e infatti, dopo che la composizione divenne nota, Giorgio Oberweger non mi disse nulla”.


Oberweger, ostacolista e discobolo (in quei tempi felici era possibile), inventore, commissario tecnico, italiano di un incerto confine con la Mitteleuropa, non dicendo niente era come avesse detto: “Veditela da solo”.

Perché Livio, 21 anni compiuti poco più di cento giorni prima di quel 3 settembre 1960, avrebbe corso contro Peter Radford britannico, primo ad approdare a 20”5 (a Wolverhampston, il 28 maggio, sulle 220 yards, ai campionati dello Staffordshire) prima che Stone Johnson e Ray Norton il 2 luglio, in momenti distinti dei Trials di Stanford (batteria e finale), si ponessero allo stesso livello dell’inglese che aveva passato parte dell’infanzia su una sedia a rotelle. Erano appena passate le 15,15 quando Radford diede l’addio alla finale e Livio la conquistò diventando il quarto della storia a toccare quel tempo . “Un po’ incazzato – ricorda lui, a mezzo secolo abbondante – per un paio di ragioni: avevo rallentato e buttato via la chance di finire in 20”4, forse in 20”3 e non sapevo, a poco più di due ore dalla finale, quante energie avessi speso. Quel periodo che mi parve molto lungo lo passai riflettendo, in preda al timore. Al terrore, no”.


Raccontano che gli avversari si domandassero cosa faceva quell’italiano che nascondeva lo sguardo dietro lenti scure (“da vista”): se ne stava lì, senza scaldarsi, senza provare partenze. Troppo sicuro di sé. Snob. “Macchè snob: la mia droga era la paura”.

Dopo aver rivisitato la gara per un numero x di volte (“diverse centinaia, direi”), Livio conviene di aver corso piuttosto bene: curva perfetta (“quando in Giappone dissi che dipendeva dal fatto di aver praticato il pattinaggio di velocità, spedirono gli sprinter del Sol Levante sul ghiaccio, con quali risultati non so ma direi non rilevanti”), buon rettilineo senza badar troppo al tambureggiare dei piedi (assai avvertibile sulla tennisolite) di Lester Carney: “Il meno accreditato dei tre americani si rivelò il più pericoloso”.

Racconto e testimonianza freschi, raccolti a tavolo di una trattoria torinese (“i 75 anni li sento in queste occasioni: sono sufficienti un piatto di carne cruda e un paio di dozzine di agnolotti. Ai vecchi tempi erano un assaggio”), servono a formare lo stato delle cose, a compilare e a affinare quei parametri che non sembrano gli strumenti adatti con un tranquillo rapsodo con Livio. In ogni caso: in poco più di due ore e mezzo, due record del mondo e un oro olimpico. Contro i migliori.
“Ero un po’ attonito. Felice senza confini, era Abdulaye Seye, terzo: l’incontrai proprio qui a Torino, mezzo secolo dopo quella giornata, poco prima che se ne andasse”.

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L'arrivo vincente di Livio Berruti nei 200 metri ai Giochi Olimpici di Roma 1960 (archivio FIDAL)



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