Salto in alto: l'arte del Ventrale

23 Ottobre 2014

Il 26 ottobre ad Agazzano (PC) un seminario storico sullo stile che ha consacrato campioni come Valerij Brumel

di Giorgio Cimbrico

Titolo lungo e poetico per il convegno di domenica a Agazzano, nel Piacentino: “Il Ventrale: bellezza di un gesto che fu arte prima di essere uno sport”. L’hanno promosso Giovanni Baldini e Ottavio Castellini che hanno prodotto anche un librino, da non perdere, di 76 pagine e un filmato di 20’, ricordo stampato e visivo sulla medaglia d’oro che il 21 ottobre di 50 anni fa, a Tokyo, finì nelle mani di uno dei campioni più grandi e disperati, Valerij Brumel che sulla via dei Giochi giapponesi sei volte aveva migliorato il record del mondo sino a portarlo a un 2,28 che odora forte di modernità, di contemporaneità.

Il ruolo di giustiziere dei saltatori americani era cominciato già a Roma quando, diciottenne, Valerij aveva conquistato la medaglia d’argento, alle spalle del magro e baffuto georgiano Robert Shavlakadze, l’uno e l’altro davanti a John Thomas, il lungo ragazzo del Sud che i critici americani vedevano come il naturale destinatario della vittoria. Valeri era originario di una sperduta località siberiana, Tolbuchino, erede di una famiglia baltica là trasferitasi quando prese il via la campagna staliniana della colonizzazione delle terre vergini e, con essa, la promessa di stipendi più alti. Lì Valeri era nato, in piena guerra patriottica, la seconda guerra mondiala, e alla rodina (la patria) diede la sua raffica di record mondiali, un magistero che nessuno ha incrinato (a parte Volodja Yashchenko, cosacco di Crimea, ultimo interprete del ventrale, portato via giovanissimo dal diavolo annidato nella bottiglia) e la medaglia d’oro olimpica di Tokyo, raggiunta non senza patemi dopo una balbettante qualificazione e una decisione finale affidata al numero di falli: lo sconfitto fu ancora Thomas, unlucky loser. 2,18 e record olimpico per entrambi, ma l’oro fu sovietico.

C’è un’immagine che più di ogni altra rappresenta e tramanda e la meraviglia assoluta che il suo stile seppe regalare per un tempo troppo breve: è una vecchia foto bianco e nero, scattata in una palestra di Mosca e Valerij, dopo essersi diretto verso il tabellone, sta assestando un calcio al nastro del canestro, posto qualche centimetro più in alto dei tre metri. Brumel fu un anticipatore, il simbolo di uno sport (sovietico) opposto in una sfida senza fine a quello americano negli anni più ispidi della Guerra Fredda, delle crisi di Cuba, della corsa allo spazio, della minaccia nucleare: tre dei suoi sei record mondiali (sino al fantastico 2,28 del 21 luglio 1963) vennero nel corso di incontri tra Urss e Usa che assumevano altro aspetto e significato di un match di atletica.

Il fato gli concesse poco tempo e lui seppe sfruttarlo, soprattutto nelle due annate perfette, il ’62 e il ’63 lungo le quali scavò tra sé e il mondo un fossato profondo, definitivo nelle misure, totale nell’interpretazione di un stile che ebbe in lui il Lord, il signore assoluto, il teorico, l’applicatore, l’agonista.

Valutando il dato anagrafico di Valeri, poteva essere l’inizio di una serie memorabile, da spingere sino al ’68, forse sino al  ’72. E invece la sua era viaggiava verso la notte. Lo schianto arrivò la sera del 4 ottobre 1965, su una di quelle enormi prospektive moscovite, umida di una pioggia che l’oscurità stava trasformando in patina ghiacciata. La moto era guidata da Tamara Golikova, campionessa delle due ruote, Valeri era sul sellino del passeggero. Tamara ne uscì indenne, Valeri no. Quando lo portarono all’ospedale e frugarono nelle sue tasche, alla ricerca dei documenti, il medico di servizio venne scosso da una sferzata gelida: quello era Brumel e il piede destro, quello dello stacco, era attaccato alla gamba da filamenti di pelle. Un’operazione dopo l’altra (venti), un tormentato cammino della speranza, un graduale abbandono da parte di tutti, anche della moglie (”Cosa facevi in moto con Tamara?”) che ottiene il divorzio. Solo un piccolo raggio di sole: “Non arrenderti. Spero di vederti saltare ancora”, gli scrisse il gentile Thomas, mai invelenito dalle sconfitte.

“Un dolore che mi torturava”, lascerà scritto mentre provava a rientrare e con quel piede rimesso assieme salta 2,06. Dal momento del volo sull’asfalto sono passati quattro anni e le ali sono tarpate come quelle di un uccello che qualcuno ha deciso di non far più volare. Nel frattempo gli americani avevano lanciato la loro Rivoluzione d’Ottobre, il loro ’68, affidandosi a uno strambo personaggio, all’iconoclasta Dick Fosbury, quello che dava le spalle all’asticella in un gesto da gambero, senza affrontarla come Valeri che guardò in televisione e capì che il nuovo era avanzato. Negli anni che lo divisero da una morte prematura, calatagli addosso a 60 anni, poche notizie. Una annunciava che il suo dramma “Secondo tentativo” era rimasto in scena cinque anni al teatro Sladovski. Unico in tutto, persino nella sua dolente autocelebrazione.

Il convegno si svolgerà domenica 26 ottobre (ore 10:30) presso il Centro Parrocchiale di Agazzano (Piacenza). La giornata, fortemente voluta dalla moglie Mariuccia e dal figlio Giovanni con la moglie Gabriella, si avvarrà della preziosa collaborazione degli amici dell’Associazione Amatori Atletica di Agazzano, dell’Archivio Storico dell’Atletica Italiana “Bruno Bonomelli” e della Collezione Ottavio Castellini.

Il seminario storico si svolge per ricordare i 2 metri valicati nel 1964, esattamente l’11 luglio, da Felice Baldini, poliedrico atleta piacentino degli anni ’60 che fu in grado di primeggiare nelle discipline di salto, lancio e sollevamento pesi. Per ricordare la figura di Felice Baldini arriveranno domenica ad Agazzano alcuni dei suoi colleghi diplomati alla Scuola Centrale dello Sport del CONI alla fine degli Anni ’60, alcune autorità del mondo politico-amministrativo e sportivo ed alcuni tra i migliori interpreti in campo nazionale del salto in alto con la tecnica ventrale, “straddle” per gli americani. Al seminario storico ha dato la sua adesione anche Giacomo Crosa, conosciuto come commentatore sportivo televisivo, ma in gioventù atleta di altissimo livello, sesto ai Giochi Olimpici di Mexico City 1968, capace di ritoccare a più riprese il primato italiano di salto in alto con la tecnica ventrale.

Valerij Brumel in azione (archivio FIDAL)

IL VOLO DI VOLODJA - Un meraviglioso che si vede di rado, un amico fragile, avrebbe detto Fabrizio de André, ma anche un Icaro dalle ali spezzate che conobbe la dimensione spietata dell’Arcipelago Gulag. Sono gli elementi, le tessere, i materiali narrativi e di vita rintracciabili e rintracciati in “Il Volo di Volodja”, 156 pagine per ricostruire l’esistenza breve e i picchi scalati da Vladimir Yashenko: se Steve McQueen è stato l’ultimo buscadero (il cowboy che doma i tori), Volodja è stato il nitido capitolo finale dello scavalcamento classico. Il Fosbury era già stato inventato da Dick, ma a Volodja non importava. Il libro (Miraggi edizioni, 15 euro) è stato scritto a quattro mani da Igor Timohin, nato nel più lontano Oriente di Russia (Vladivostok) ma trapiantato nella cosacca Zaporozie, la città natale di Yashenko (erano amici e si avverte), e da Guseppe Ottomano, pugliese-milanese, appassionato di storia e di storie dello sport che ama stendere su carta e in rete. E’ la vicenda di una parabola rapida, di un sole abbagliante che nasce e si spegne. Facile, scontato riportarla a cadenze mitologiche: gli dei hanno concesso qualcosa di straordinario ma hanno anche chiesto che i miracoli siano offerti in fretta da questo semidio con i talloni pronti a essere perforati dalla freccia. E così Volodja consuma in fretta il filo concesso dalle Parche: il record mondiale di Richmond, il volo di Milano a 2,35, la terza scalata, offerta al pubblico di Tbilisi, il titolo europeo a Praga. Tutto tra i 18 e i 19 anni prima che gli infortuni lo facessero a pezzi e il diavolo nella bottiglia finisse di divorarlo. “Oggi nessuno si ricorda più di me. Pensavo di essere entrato nella storia, di essere destinato a una vita straordinaria e invece non sono altro che una pagina insignificante, già cancellata”, ha detto mentre la fine si avvicinava. Non è vero niente. Se c’è stato un Orfeo che ha reso musicali una rincorsa, uno stacco, un avvolgersi attorno all’asticella, quello è stato Volodja e tutti, come le fiere della foresta, ne furono soggiogati. Era un prodigio e morì a 40 anni, appena più vecchio di Mozart. (g.cim)

SEGUICI SU: Twitter: @atleticaitalia | Facebook: www.facebook.com/fidal.it



Condividi con
Seguici su: