L'atletica a quattr'occhi

22 Giugno 2015

Panoramica sui grandi atleti con gli occhiali che hanno conquistato medaglie e risultati rimasti nella storia

di Giorgio Cimbrico

L’atletica può finire sotto un… altro punto di vista, quello di chi l’ha fatta, anche a livelli assoluti, portando gli occhiali e cavandosela perfettamente. Insomma, vedendoci chiaro. Uno per tutti, Livio Berruti che in quel magico giorno di quasi 55 anni fa portava lenti scure per difendere gli occhi dall’avvampare del sole romano. Un oggetto molto normale: oggi sarebbe di leggerissimo carbonio, naturalmente testato nella galleria del vento. Altri tempi.

In età di lenti a contatto sempre più diffuse (nel rugby si verificano spesso fermate fuori programma per rinvenire sull’erba quella specie di piccola goccia), c’è qualcuno che continua a preferire le stanghette agganciate ai padiglioni auricolari, magari con un elastico per non vederli volare via, come faceva quel buonanima di Walter Zamparelli: tra i contemporanei il più grosso, in tutti i sensi, è Pavel Fajdek, polacco, numero uno del martello che ha avuto, tra i colleghi di specialità e i predecessori a quattrocchi, il tedesco est Jochen Sachse. Altri tedeschi senza occhi di falco, ma dalle gambe forti e dalla spiccata resistenza alla velocità: l’orientale Thomas Schoenlebe, dopo 27 anni ancora primatista europeo con 44”33, e l’occidentale Hartmut Weber che, inforcando occhialini professorali, diventò campione europeo dei 400 e della 4x400 ad Atene ’82.

Il più leggendario tra gli occhialuti? Non c’è dubbio sia Matti Jarvinen, soprannominato Mister Giavellotto, dieci record del mondo, l’oro olimpico di Los Angeles, destinatario della torre di stile razionalista che domina lo stadio di Helsinki alta quanto il suo ultimo acuto, 77,23.

Matti portava occhiali molto semplici, tondi, dalla montatura in metallo, simili a quelli di Adrien Paulen, olandese, finalista olimpico sugli 800, membro della resistenza contro gli occupanti tedeschi, guida della Iaaf prima dell’avvento di Primo Nebiolo.

Giusto negli anni Trenta salì sulla scena del mezzofondo un campione con problemi di vista, il piccolo Sydney Wooderson, primatista del mondo del miglio nel ’37 (4’06”4), campione europeo dei 1500 l’anno dopo a Colombes e capace di bissare il titolo otto anni dopo, ma sui 5000, a Oslo. Sydney non ci vedeva granché e venne respinto dall’esercito anche in un momento drammatico come i giorni della mobilitazione del settembre del ‘39: da buon britannico – non aveva forse detto Nelson, più di un secolo prima, che il paese si aspettava che tutti avrebbero fatto la loro parte? – si presentò al comando dei Royal Firefighters, i Vigili del Fuoco, e combattè contro gli incendi durante il lungo Blitz lanciato dalla Luftwaffe su Londra.

La più bella tra le occhialute? Anche qui nessun dubbio: Heidi Marie Rosendahl che tutto quel che toccava diventava sensuale a cominciare dalle calze lunghe a strisce orizzontali, per continuare con il colore fulvo dei capelli e con quell’oggetto che portava sul naso, da cui balenavano occhi belli e maliziosi. Meno glamour è stata Tia Hellebaut da Anversa, che preferiva quel modello stretto, anni Cinquanta, tornato di moda. Lo portava quella sera a Pechino quando a 2,05 domò Blanka Vlasic che, dopo molte lacrime, ebbe bisogno di occhiali scuri per nascondere il suo dolore. A rischio di occhiali, infine, sono quelli che si ritrovano alle prese con gli atleti polacchi: a furia di aver a che fare con nomi che sembrano le lettere stampate sul tabellone dell’ottico (K S Z C Z O T), le diottrie possono correre seri pericoli.



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