Il british slam di Rutherford

25 Agosto 2015

di Giorgio Cimbrico

Alla fine Greg Rutherford l’ha avuta la sua Union Jack, da stringere tra le mani, da drappeggiarsi addosso come un mantello. Quell’intrico di croci, vecchio trecento anni, aveva creato il caso della vigilia perché il “rosso saltante” è uno che parla chiaro, senza un pelo o un granello di sabbia sulla lingua, e che ha obiettivi che di solito centra. A Pechino, il quarto. Dopo l’intermezzo lacrimoso di Jeff Henderson.

La maglia britannica per Pechino non prevede il vessillo, soltanto la scritta Great Britain e la scrittina British Athletics. E Greg non l’ha mandata giù: “Dov’è la mia bandiera? Ridicolo non ci sia “. E’ stato sufficiente per aprire un dibattito, per provocare commenti di sapore politico, di spessore storico, di valenza sociologica. Sul Guardian hanno scritto che l’Union Jack evoca campi di battaglia, aggressività imperiale e via con questo repertorio. Nessuno ha pensato a riesumare una bella battuta di gusto marinaro: “Hanno inventato il maestrale per farla sventolare”. Perché quando il vento di nord ovest soffia forte è proprio bello vederla. Ma queste sono considerazioni estetiche e terribilmente d’antan, condivise da questo giovanotto che non è per nulla allineato con colleghi e colleghe che, se intervistati, buttano l’amo nel consueto e estraggono dallo stagno il pesce più banale.

E ora Greg (lontane origini scozzesi, cresciuto a Milton Keynes, nata come città ideale e utopica) è il quinto da British Slam, a stringere in pugno, contemporaneamente, gli scettri dell’Olimpiade, dell’Europeo, dei Giochi del Commonwealth e dei Mondiali: a questo punto, sarebbe necessario avere tante braccia quanto la dea Kali. L’avevano preceduto Daley Thompson, Sally Gunnell, Jonathan Edwards e Linford Christie. Un club esclusivo e una galleria di grandi.

Ora ha avuto accesso anche Greg che non ha mai digerito che la sua vittoria olimpica sia stata sbrigata come un evento fortunato, un regalo del destino, un caso. “D’accordo, non si vinceva con una misura del genere dal ’72, ma è sempre un oro olimpico”. Non celebrato come quelli di Mo Farah e di Jessica Ennis. E così, lui si è divertito a dare risposte raggelanti a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto alla chiusura del sipario: il praticante di skeleton, lo slittino a volto in avanti, l’unica specialità invernale amata – con successo – da britannici e britanniche. “Ho fatto un po’ di discese sulla pista olimpica di Lillehammer e diventare il primo britannico campione olimpico d’estate e d‘inverno mi trasmette qualche brivido”. Più che altro lo renderebbe un pezzo unico.

Per il momento è ancora e sempre concentrato sul lungo (8,51 l’anno scorso a Chula Vista, California, scatenando gli acidi commenti di Chris Tomlinson, rivale ormai eclissato) per puntare sul bis a Rio e provare a chiudere il cerchio con i Mondiali di casa, quelli londinesi del 2017. 

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