La lunga marcia di Golubnichy

18 Aprile 2016

In attesa dei Mondiali di Marcia a squadre, in scena il 7 e 8 maggio a Roma, proseguiamo il viaggio nella storia di questa disciplina. Oggi ricordiamo Vladimir Golubnichy, ucraino vincitore di quattro medaglie Olimpiche.

Giorgio Cimbrico

Il 2 settembre 1960 Vladimir Golubnichy (nel frattempo è diventato VolodimirHolubnichy e il 2 giugno taglierà il traguardo degli 80 anni) mise le basi perché, al ritorno in patria, il Primo Segretario Nikita Kruscev, ucraino d’adozione, gli assegnasse l’Ordine della Bandiera Rossa. Vladimir, ucraino purosague (il luogo di nascita è Sumy, nel nordest), era alla prima Olimpiade e con essa inaugurò un’infinita stagione che lo portò a insuperabili record di longevità e a portare tuttora in capo la corona di sovrano dei “ventisti”. Quel giorno precedette di una trentina di metri l‘australiano Noel Freeman che, probabilmente, buttò l’occasione della vita. I tempi dei tre che salirono sul podio, oltre l’1h34’, trasmettono la limpida idea di quale marcia venisse praticata allora.

Proprio queste nuove frenesie Vladimir fu costretto a fronteggiare otto anni dopo, quando dopo la medaglia di bronzo incamerata a a Tokyo, si schierò al via a Mexico City: all’ingresso nello stadio precedeva il connazionale e compaesano Nikolai Smaga, oggi, con traslitterazione ucraina, Mykola Smaha. Entrambi vennero incalzati, in un finale incandescente, da uno dei fondatori della fortuna della marcia messicana: Josè Pedraza saltò Smaga e si mise sulle orme di “Golu”. L’aggancio, auspicato da 60.000 spettatori in delirio, mancò per meno di due secondi, misurati, palmo più palmo meno, in tre metri. Fonti assai autorevoli sostengono che Giorgio Oberweger, ct azzurro e quel giorno alla guida della giuria internazionale, nel boccaporto avesse sussurrato al messicano, dallo stile assai discutibile, un messaggio che tradotto può suonare come: “Ti facciamo arrivare ma non sognarti di vincere”.

La lunga marcia di Vladimir, sempre irreprensibile e perfetto in un’oculata interpretazione delle gare, continuava: a Monaco 1972 cedette per una manciata di secondi solo al tedesco est Peter Frenkel e qualcuno vide in quell’argento il canto del cigno dell’ucraino che, ormai ampiamente stempiato, aveva doppiato il capo dei 36 anni e soprattutto era sulla breccia da una dozzina abbondante di stagioni. Ma chi aveva cantato in anticipo il suo requiem sportivo aveva preso un clamoroso granchio: un titolo europeo mancava alla collezione e Vlad sistemò la faccenda due anni dopo scegliendo la città e lo stadio del suo primo trionfo: Roma era assediata da un caldo umido degno del sudest asiatico e il vecio diede vita a un formidabile testa a testa con il tedesco est Bernd Kannenberg, campione olimpico in carica della 50 km e, visti i natali (a Koenigsberg, oggi Kaliningrad), concittadino di Emmanuel Kant che ogni giorno, messo da parte lo studio sui mezzi della conoscenza, preciso come un orologio, marciava (passeggiava…) per le strade della città anseatica.

Ma quei piccoli nove secondi di margine, che lo confermavano frequentatore dei successi di stretta o strettissima misura, passarono inosservati di fronte alla commozione che il veterano suscitò negli avversari: dopo 14 anni aveva vinto ancora lui e i membri della confraternita gli si affollarono intorno, felici di poter onorare tale campione. Vladimir si cavò di testa il cappellino e offrì un sorriso largo e buono. Non si fermò neanche allora: a 40 anni compiutì andò ai Giochi di Montreal, i suoi quinti, e  finì settimo, qualche secondo davanti a Vittorio Visini. Nel frattempo altri leader, che al Kremlino avevano preso il posto di quelli in carico al tempo della sua giovinezza, avevano allungato la lista di decorazioni di questo Eroe dell’Urss.

La 50 offrì meno scintille: la dominò il tedesco est Christoph Hohne (non era frequente all’epoca prender nota di un tempo sotto le quattro ore, per di più centrato in condizioni così difficili), davanti al sovietico di radice germanica Otto Barch e all’altro Ddr PeterSelzer che nel finale tolse dal collo di Vittorio Visini una medaglia che l’abruzzese aveva a lungo accarezzato.

LA MARCIA A ROMA, i capitoli: 12 - 3

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