La marcia di De Benedictis

06 Febbraio 2017

"L'atletica raccontata". Intervista a Mario De Benedictis. 

Tutti, atleti, allenatori, dirigenti, giudici, abbiamo desiderato o desideriamo le olimpiadi. Non le desideriamo da spettatori, ma da protagonisti. Se in altri sport  il desiderio potrebbe anche essere altro, nel nostro no. Noi siamo stati creati per le olimpiadi e, le olimpiadi, sono state create per noi. Siamo stati legati, alla nascita, con l’immortalità dell’alloro olimpico, con i suoi valori, con la sua magnificenza. Per quanti sport si possano aggiungere, le olimpiadi sono casa nostra, il nostro naturale palcoscenico, il luogo in cui diventiamo stupendi. Ecco, allora, che chi tra noi ci è arrivato, chi è riuscito a vincere una medaglia, chi è riuscito ad assaporare l’attimo imperituro dell’olimpiade, deve raccontarsi, deve raccontarcelo. In questa nuovo appuntamento, quindi, abbiamo deciso di intervistare un tecnico abruzzese che, allenando il fratello, ha vinto un bronzo. Stiamo parlando di Mario de Benedictis, della medaglia di bronzo di Barcellona 1992 del fratello Giovanni e della marcia, disciplina senza la quale molte delle nostre gioie olimpiche non ci sarebbero state. Potremmo dire tante cose di Mario de Benedictis. Ma se è vero, come lo è, che una delle fonti della storia è il racconto orale dei protagonisti, passiamo alla domande e lasciamo che sia lui a narrare la sua.

Ciao Mario, qualche domanda per riscaldare l’ambiente e poi entreremo nel vivo dell’intervista. Maestro, Coach, Prof, Mario, come ti dobbiamo chiamare, quale termine preferisci? Ci sono mestieri veramente duri, ma se c’è un mestiere veramente difficile, questo è il Maestro. Nelle scuole primarie si forgiano le generazioni future, si pongono le basi per gli uomini e le donne di domani. Senti questo peso? Se poi ci aggiungiamo la tua attività di allenatore giovanile, appare chiaro che la tua è una vocazione, o sbaglio?

Ciao Orlando, Mario va più che bene, ci mancherebbe altro! “Maestro Mario” lo lascio ai miei bambini, ché quella apposizione accanto al mio nome, a scuola, ha ancora un senso; almeno per me.
Sento la responsabilità di un impegno che ritengo ‘cruciale’ in quella delicatissima fase dell’età evolutiva che va dai 6 agli 11 anni, ma che non è un peso, anzi. Amo dire, con un filo di soave cinismo, che i maestri non invecchiano mai; scompaiono improvvisamente.
Insegno nella scuola primaria dal 1992; mia madre era maestra; anche mio nonno – suo padre – lo era. Ho cominciato a respirare polvere di gesso da subito; ben prima dei 6 anni. Più che una vocazione, una sorta di felicissima ‘predestinazione fortemente voluta’.

 

Il tuo nome è strettamente collegato, in ambito  sportivo, con la disciplina della marcia. Ma, se non sbaglio, hai anche avviato, assieme ad altre persone, un progetto che si chiama “Scuola Italiana Camminata Sportiva”.  C’è qualcosa di romantico, in questa tua passione per il “camminare”, gesto tanto semplice e quotidiano quanto profondo e riflessivo, o è solo puro studio biomeccanico? Sentiti libero di raccontarci la tua “marcia”, il tuo “camminare”.

Sono un ‘ibrido’ del podismo. Da atleta cominciai con la marcia, a 12 anni, nel 1977 (all’inizio il marciatore in famiglia ero io; Giovanni, mio fratello, correva). Alternai marcia atletica e mezzofondo prolungato fino al 1985, anno in cui mi dedicai totalmente alla corsa che praticai a discreti livelli fino al 1987 (anche se nel 1990, quando ormai ero totalmente preso dall’attività di insegnante-allenatore, e ‘corricchiavo’ 4 volte a settimana, corsi ancora un 10.000 in pista in 31:02).
Ancora oggi alleno corridori e marciatori. ‘Declino’ podismi, da sempre. Una passione che mi ha condotto a fare esperienze sportive diverse e sempre esaltanti. Recentemente, assieme agli amici Alessandro Pezzatini, Fabio Moretti e Agnese Zanotti, ho partecipato alla fondazione della “Scuola Italiana di Camminata Sportiva” che ha sede a Roma. Questo progetto nasce, senza presunzione, dalla necessità di fare chiarezza,  scientificamente, dentro il "mare magnum" del fitness podistico e del podismo sportivo in chiave walking. Ed è per questo che nei nostri corsi di camminata sportiva 'usiamo', traslandoli in modo funzionale, i contenuti scientifici della marcia atletica per insegnare una tecnica che permetta, al di fuori dei vincoli regolamentari della marcia atletica stessa, velocità significative dal punto di vista della salute.
E poi la marcia, atletica e non, è atto mistico per antonomasia. Si può fare a meno di correre, ma non si può smettere di camminare.

 

Siamo nel 1992, Barcellona, Olimpiadi, 20 km di marcia, dopo 1h23’11” di gara tuo fratello alza, per un attimo, le braccia al cielo mentre passa il traguardo, e poi…Sentiti libero del parlare del prima del dopo, insomma, raccontaci questa storia. Una sola cosa ti chiedo, per i nostri ragazzi, ma anche per noi allenatori, come ci si arriva?

Su quella vicenda – del prima e del dopo, più che del “durante” – potrei spendere fiumi di parole, che Vi risparmio. Mi limiterò a dire, sinteticamente (e non sarà semplice), del senso di quell’impresa, della necessità di “saper fare squadra”, sempre, per ottenere risultati di eccellenza.
Il bronzo olimpico che mio fratello Giovanni vinse nel 1992, a Barcellona, fu l’unica medaglia ottenuta dalla Nazionale Italiana di Atletica Leggera in quelle olimpiadi. Giovanni aveva 24 anni. Io 27.
Quattro anni prima, a Pescara, assieme all’amico Valerio Di Vincenzo (allora medico ricercatore all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara) si diede vita al Progetto ‘92, una sorta di ‘sponsorizzazione’ atipica che avrebbe sostenuto l’impegno dell’atleta durante i quattro anni che andavano dall’olimpiade coreana (Seoul ‘88) a quella catalana. La sintesi del comunicato stampa di presentazione del progetto spiega bene l’approccio scientifico e le finalità dell’iniziativa:
Il progetto 92 si pone l'obiettivo di applicare una metodologia scientifica a tutti gli aspetti che riguardano la prestazione di un'atleta di eccellenza. Esso parte dall'osservazione dei molteplici fattori che in forma non strutturata rappresentano l'attività che viene svolta dall'atleta Giovanni de Benedictis e dall'entourage che lo sostiene a livello tecnico, organizzativo e medico-scientifico. Da questo punto viene avviata una analisi che pone al centro dell'attenzione i fattori che determinano l'ottimizzazione del rendimento di una prestazione e in tal modo è possibile descrivere le linee guida da seguire allo scopo di costituire una procedura razionale, riproducibile e verificabile che va seguita allo scopo di ottimizzare la preparazione dell'atleta”.
Alla fine del 1988, avevo 23 anni, reduce dalla prima partecipazione olimpica di mio fratello Giovanni in terra coreana (conclusasi con un onorevolissimo 9° posto), sentii la necessità di crescere,  tecnicamente e culturalmente, in fretta. Giovanni de Benedictis, uno dei più grandi talenti della marcia, non solo italiana, aveva bisogno di un allenatore vero. (Uno Stradivari tra le mani di un musicista incompetente, ‘gracchia’).
Il Progetto ‘92 fece di me un ‘ricercatore’ prestato al campo e di mio fratello un medagliato olimpico, nonostante il Fato beffardo e sempre attivo che, a 2 mesi esatti da quelle memorabili olimpiadi, ci mise lo zampino: un infortunio per trauma contusivo al ginocchio destro. Fossi stato solo in quel frangente, addio olimpiadi!
Il Progetto 92 fu il prodotto di un intuito plurale, competente e appassionato. Un’iniziativa “fuori dal coro” che non temeva il confronto intellettuale, vivace, serrato, ad ogni livello e contesto. Un progetto abruzzese la cui rilevanza etica, scientifica, culturale (la possibilità di poterne replicare i protocolli, di poter attingere a quell’immenso patrimonio di esperienze accumulate in quasi quattro anni) non fu compresa né localmente, né a livello nazionale dai vertici federali. E questo, senza polemica, è un aspetto che mi sconvolse allora e che continua a farmi riflettere ancora oggi.
Credo, con questa mia ‘tirata’, di aver risposto alla Tua domanda. Non ci sono segreti o formule magiche da svelare.
 

Nel 2015 decidi di collaborare con lo staff del Maestro dello sport Alessandro Donati nel progetto di recupero di Alex Schwazer. Ad un certo punto sembrava la sceneggiatura di un film: il campione che cade e si rialza con l’aiuto di buoni maestri, che lotta contro tutto e tutti e testa bassa torna a vince prendendosi la sua opportunità di riscatto, per poi, con un finale epico, vincere. Ma la vita non è un film, vero? Cosa hai guadagnato e perso in questa storia?

Sì, la vita non è un film e, soprattutto, lo sport di alto livello, oggi più di ieri, è il luogo dove sovente i principi etici vengono sistematicamente calpestati. Scelsi di collaborare con Sandro Donati, nel progetto di ‘rinascita’ – umana e sportiva – di Alex Schwazer, senza pensarci due volte. Il mio “sì” istintivo a Sandro è figlio del debito che, a mio avviso, ogni allenatore dovrebbe sentire di avere nei suoi confronti. In quel momento era per me arrivato il tempo di fare qualcosa di dirompente; di mettersi in gioco con coraggio e determinazione. Che cosa ho perso in questa storia? Nulla, anzi. Ho fatto un’esperienza umana e tecnico-scientifica di altissimo profilo, io credo. E ho conosciuto meglio e profondamente il mondo dello sport – non solo l’alto livello  – che oscilla invariabilmente dalla bellezza più limpida e puerile di chi sogna a occhi aperti, all’orrore lucido di un sistema diabolico che lo governa da sempre e che ha l’unico scopo di ottenere immensi profitti e quote di potere, sempre sulla pelle degli atleti. Potessi tornare indietro direi ancora quel “sì”.

 

Dopo due domande riguardanti esperienze di alto livello, parliamo di basi, di costruzione dell’atleta e del ragazzo, perché tu sei impegnato, come dicevamo all’inizio, anche come allenatore di giovani atleti. Qual è la tua filosofia? Hai una ricetta per far crescere un futuro campione? Come si fa a far piacere la marcia ad un giovane atleta?

Innanzitutto ci tengo a dire che a me la parola “campione” non piace quando la si accosta, anche solo per gioco, ad un giovane atleta. È fuorviante. Può generare equivoci diabolici. Rivolgo il mio impegno di allenatore soprattutto ai più giovani, perché sono un insegnante e credo, nonostante tutto, in loro e nelle immense possibilità offertemi dalla Cultura Sportiva (esiste, oh se esiste) per migliorarli come persone e cittadini responsabili; consapevoli. Lo sport degli adulti, a qualsiasi livello, mi piace molto meno. Lo dico subito: ho smesso da un pezzo di credere alle ‘favole belle’ e sono d’accordo con Donati quando dice che segue le Olimpiadi, ma non si sforza più di ricordare i nomi degli atleti. Lui dice: “È come il teatro, che però preferisco, perché lì il rapporto tra attore e spettatore è chiaro. Nel teatro dello sport, invece, fingono entrambi che sia tutto vero”. La ricetta per far crescere un futuro campione in definitiva non c’è. Ma di una cosa sono certo: non c’è didattica buona senza Educazione. Come appassionare un giovane alla marcia? È più facile di quanto si pensi, a patto che ci siano tecnici realmente appassionati; educatori veri. (ce ne vorrebbero di più).

 

Siamo all’ultima domanda, e come sicuramente saprai, è quella meno formale di tutta l’intervista. Lo scopo è quello di far emergere una parte della nostra attività, che tende a nascondersi dietro i cronometri e le fettucce. In quella parte, sicuramente, ci sono i sogni. A me piace particolarmente un proverbio africano che dice “Se si sogna soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”. Magari, iniziando a condividere i nostri sogni, qualcosa di reale possiamo creare e, forse, possiamo trovare anche un “luogo” nuovo in cui riscoprirci più vicini, non trovi? Parlando dell’ambito sportivo, tu sogni ancora?

La dimensione del sogno è per me quella del desiderio che cerca tenacemente le vie della concretezza. Il “mio” sogno ha poco di onirico; è un progetto che non teme la notte, il buio che precede l’alba di una nuova partenza. Anni fa, in uno scritto che dedicai a mia moglie Evelina, scrissi: “[…] bramiamo l’approdo, non la meta, perché non c’è meta ma un sogno: quello della notte che precede una nuova partenza”. E quindi sì, sogno ancora. E in ambito sportivo è un sogno collettivo; condiviso. Della “Scuola Italiana Camminata Sportiva” vi ho già detto. E c’è anche, e soprattutto, “Passologico”, l’associazione sportiva pescarese operante nell’ambito dell’atletica leggera, nata dal desiderio feroce di un pugno di amici di tornare a fare sport per gli altri, prima che per se stessi. Un progetto che ha nel “Kids615” la sua punta di diamante (partiamo dai bimbi di 6 anni e ‘chiudiamo’ il percorso educativo-formativo intorno ai 15). Come diceva un mio carissimo amico, sognare non è necessario; è obbligatorio.

 



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