ADDIO AL GRANDE LUIGI DE ROSSO, MARCIO’ A ROMA ’60

29 Aprile 2020

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Una triste notizia per l’atletica italiana. Ieri, alla soglia degli 85 anni, è mancato Luigi De Rosso, marciatore che vestì per 10 volte la maglia azzurra tra il 1960 e il 1967. Era uno dei quattro veneti, insieme ad Adolfo Consolini, Carlo Lievore e Pier Giorgio Cazzola, che parteciparono all’Olimpiade di Roma 1960. Nato a Velo d’Astico (Vicenza), giunse 22° nella 20 km di marcia di quella storica edizione dei Giochi romani. Oltre alla partecipazione olimpica, vantava un secondo posto ai Mondiali Militari e vari piazzamenti sul podio tricolore. Avrebbe potuto vincere di più, ma la sua parabola d’atleta coincise con quella del fuoriclasse Abdon Pamich, che lo precedette in diverse occasioni. Conclusa la carriera agonistica, fu tecnico delle Fiamme Oro. Risiedeva a Padova, ma durante l’estate amava tornare al paese natio, nella Val d’Astico. Ai famigliari di Luigi De Rosso vanno le più sentite condoglianze da parte del presidente del Comitato regionale, Christian Zovico, e dell’atletica veneta tutta.

Ricordiamo Luigi De Rosso con il bel ritratto che ne fece qualche anno fa l’amico Vittorio Fasolo.

L’altra faccia della moneta olimpica vicentina del 1960 è rappresentata da Luigi De Rosso, marciatore di Velo d’Astico. Talvolta la realtà supera la fantasia; se un regista o uno sceneggiatore avesse voluto tratteggiare e mettere a confronto due personaggi esattamente all’opposto forse non sarebbe riuscito così bene nell’invenzione di due figure così diverse e così emblematiche delle diverse realtà di un’epoca e di una terra come quelle di Giorgio Cazzola e Luigi De Rosso. Se il primo era espressione di un ambiente cittadino, borghese, benestante, dove la vita era lieve e gioiosa e lo sport una appendice per renderla ancora più soddisfacente, per il secondo niente era stato facile, semplice, divertente; eppure i due erano quasi coetanei, separati solo da una trentina di chilometri per luogo di nascita. Pochi ormai ricordano le condizioni di vita delle nostre campagne negli anni ’40 e ’50, i più anziani hanno rimosso il ricordo, anche perché quando tentano di proporlo vengono subito con fastidio zittiti, se non irrisi, da figli e nipoti intrisi dal consumismo e dal benessere, sia pure calante, dei nostri giorni. Non si fa pregare Luigi De Rosso per raccontare la sua adolescenza nel paese natio, nelle difficili condizioni del dopoguerra; un paese cui oggi ritorna da Padova ad ogni fine settimana, come un novello Cincinnato, per accudire un piccolo podere, un orto, un pollaio. (….) Ostenta con fierezza un fisico integro ed invidiabile, temprato da fatiche improponibili ai nostri giovani, che però sa raccontare con la pacata tranquillità di un “filosofo provinciale”, che ha trasmesso a figli e nipoti, orgogliosi, almeno ogni quattro anni, di guardare con un sorriso compiaciuto ad un meraviglioso padre e nonno che “ha fatto le Olimpiadi, quelle di Roma, tanti anni fa..” Fatiche della vita, fatiche del lavoro, fatiche dello sport; un destino segnato quello del ragazzo di Velo d’Astico, che a 14 anni è già un lavoratore con i calli sulle mani, un po’ contadino sulla terra del padre, un po’ muratore. Il boom travolgente degli anni ’60 è di là da venire, il Veneto ed il Vicentino sono da tempo terra di emigrazione, la miseria è tanta, resa ancora peggiore dal disastro di una guerra assurda. Eppure anche in una situazione così difficile la vitalità irrefrenabile di un adolescente, la forte pulsione interiore a cimentarsi in qualche attività competitiva portano il giovane De Rosso a trovare la voglia e soprattutto l’energia di avvicinarsi a qualsiasi forma di pratica sportiva della quale giunge eco nella sua vallata. L’occasione sono le gare di staffetta di corsa in montagna, organizzate sui pendii circostanti; un compaesano, che si vanta di essere un campione, è in difficoltà perché gli viene a mancare uno degli altri due componenti della staffetta, e chiede a quel ragazzino magro e con un gran ciuffo di capelli se vorrebbe fare il sostituto. Luigi ha due problemi, uno, non ha le scarpe per correre, ma vengono trovate a prestito da un parente, e sono pure un po’ grandi.., due, non farlo sapere al padre che non tollera queste”distrazioni” e quindi vincola i compagni al silenzio. La staffetta parte, i due compari hanno concepito una strana tattica, quella di riservare al ragazzo l’ultima frazione, sperando di farlo partire con un po’ del vantaggio accumulato; in ogni caso potranno incolpare il novellino di aver fatto perdere loro la gara, ma non devono essere granché forti perché Luigi si trova addirittura in gran svantaggio quando arriva il suo momento. E’ come in una fiaba, lo sconosciuto sembra volare su per i sentieri, raggiunge ad uno ad uno gli avversari, gli stacca tornate dopo tornante e vince nello stupore generale; alla fine non può nemmeno essere soddisfatto perché teme che l’imprevista fama possa tradirlo col padre. Come infatti succede, è il postino del paese, abituato a raccogliere le voci in giro per la vallata, a rivelare al burbero genitore che “ha un figlio campione”. Su Luigi si abbatte la veemente punizione verbale di quel padre-padrone che non concepisce un futile spreco di energie; la fatica non remunerata economicamente è un’assurdità, un lusso da signori, quasi un peccato contro natura; è questa la mentalità allora comune nei paesi. Ma nonostante questa opposizione la voglia di competere del giovane De Rosso riemerge inarrestabile in ogni occasione, ha capito di essere forte, soprattutto quando la strada è in salita. Forte nella corsa ma anche sulla bicicletta; con una bici da donna tiene testa sulla salita di Tonezza ai ciclisti dilettanti che passano di là, qualcuno lo segnala alla Wilier Triestina, la squadra di Magni, ma non ha gli agganci giusti e non se ne fa niente. Nel frattempo a Velo d’Astico è cresciuto un altro talento, di un paio d’anni più giovane di lui, Gianfranco Sommaggio; i due sono amici e rivali, vanno di paese in paese la domenica a cercare le gare su strada, su quelle più brevi vince Sommaggio, sulle più lunghe De Rosso, e si fanno un nome. Luigi, muratore per sei giorni e corridore della domenica, vorrebbe approdare alla LaneRossi, entrare in quella squadra vorrebbe dire avere anche un posto di lavoro in fabbrica, ma ancora una volta non ha gli appoggi giusti; poi il fortunato incontro col maresciallo Martinelli, la Polizia di Stato ha appena costituito a Padova la società sportiva delle Fiamme Oro e va in cerca di atleti da arruolare. Lo stipendio di poliziotto è un po’ più alto di quello del muratore; ora il ventenne De Rosso può finalmente correre ogni giorno anche se non è troppo portato per le gare in pista, è un montanaro e si esalta sugli spazi ampi e liberi, ma deve fare di necessità virtù. “In realtà – rivela- ho capito dopo di essere un eccezionale bradicardico, allora avevo 36/37 battiti cardiaci, pochi per le distanze brevi tipo 1500 o 5000 metri su pista. Sarei stato forse un bel maratoneta, ma non ci pensò nessuno; per un paio d’anni non riuscii a migliorare, a diventare il mezzofondista che avrei voluto, nel frattempo ero stato anche raggiunto a Padova dal compaesano Sommaggio che invece in un anno divenne il primo in Italia sui 3000 siepi”. Poi la svolta, nel 1958 viene deciso un ridimensionamento della squadra e De Rosso rischia di essere “tagliato”; è disperato, accetta di essere dirottato a fare il magazziniere della caserma, ma il forte marciatore De Gaetano, rimasto solo nella specialità, chiede al comando di poter avere un compagno d’allenamento; a quasi 24 anni De Rosso affronta un’impresa ritenuta impossibile, inizia a marciare. “E’ stata durissima, – ricorda - a quell’età la muscolatura è già formata, un conto è imparare da ragazzi e migliorare lentamente il difficilissimo gesto tecnico che la marcia comporta, io ho dovuto fare tutto in un anno ed ho patito le pene dell’inferno, anche se a faticare c’ero abituato”. Il 1959 è l’anno dell’esordio, alla terza gara De Rosso stupisce tutti e sigla la quinta prestazione italiana. Davanti a lui due monumenti della marcia, due “mostri sacri” come l’emergente fiumano Abdon Pamich e l’olimpionico piacentino Pino Dordoni, poi il dalmata Stefano Serchinic ed il suo maestro e compagno d’allenamento Antonio De Gaetano dal quale le distanze si assottigliano sempre più. Il 1960 è l’anno fatidico, quello delle Olimpiadi romane; i progressi di De Rosso sono tali che in primavera viene convocato in maglia azzurra e comincia a sperare nella partecipazione olimpica; nel frattempo ha stabilito tutti i record veneti sui 10, 20 e 30 km e comincia a pensare anche ai 50 km, la gara più lunga della marcia. Ma i vertici della Federazione non si fidano troppo di quel novellino e impongono le gerarchie dell’anzianità: Pamich, Dordoni e De Gaetano sui 50 km, sulla distanza più breve il siciliano Corsaro, Serchinic e De Rosso. “Non ho potuto far altro che accettare - racconta - d’altra parte ero fin troppo felice di essere all’Olimpiade, il sogno di ogni atleta, e tutto questo era successo nel giro di un paio d’anni. Però pensavo allora e ne sono ancor più convinto adesso che sui 50 km mi sarei potuto esprimere molto meglio!”. Il 3 settembre Luigi De Rosso da Velo d’Astico entra nella gloria d’Olimpia, quella che accomuna tutti dal vincitore all’ultimo arrivato; si difende bene sul percorso ricavato sui viali tra il Tevere ed il Foro Italico e stabilisce il suo nuovo primato in 1 ora e 45 minuti che gli vale un onorevole 22° posto, ma la gara finisce quando il suo fortissimo cuore comincia a lavorare seriamente, le medaglie sono 10 minuti più avanti, appena un paio di chilometri. Sulla prova dei 50 km Pamich coglie il bronzo, la prima medaglia di una grandissima carriera, Dordoni conclude con un ottimo 7° posto la sua quarta Olimpiade e De Gaetano è splendido al 10° posto, uno splendido successo di squadra; ne è felice anche De Rosso che ritorna dopo qualche giorno a Velo d’Astico; adesso è il personaggio più famoso del paese e tutti lo vogliono festeggiare, a cominciare dalla fidanzata che lo attende con ansia ed orgoglio; gli amici gli organizzano anche un festoso e ruspante ingresso nel borgo a cavalcioni di un asino, come avveniva nell’antichità per i re dell’ Oriente, ma da buon figliolo si reca a salutare il padre. “Era sempre lui, non era affatto cambiato - ricorda Luigi con un sospiro - il suo complimento fu: varda che ghe xè da tajàre le onge ae vache!”. Poche settimane dopo De Rosso affrontava il Campionato Italiano della 50 km; come aveva pensato era veramente la sua gara, era il migliore degli italiani escluso uno, al traguardo solo il grande Pamich gli era davanti. Sarebbe stato così per tutti gli altri dieci anni della sua splendida e un po’ sfortunata carriera di marciatore, nata dalla fatica e dalla casualità sulle montagne della Valdastico.

 

 



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