Zatopkova, quei 4 ori olimpici di famiglia a Helsinki

14 Marzo 2020

Se n'è andata a 97 anni Dana Zatopkova, campionessa a cinque cerchi del giavellotto nel 1952, mezzo secolo di matrimonio con Emil Zatopek che nella stessa edizione vinse tre volte

di Giorgio Cimbrico

Qualcuno aveva cominciato a pensare che Dana Ingrova, Zatopkova da maritata, fosse eterna. Ha solo avuto una vita lunghissima, 97 anni, quasi vent’anni più di Emil (Zatopek) con cui aveva in comune, oltre a mezzo secolo di matrimonio, la data di nascita, il 19 settembre 1922, e la regione natia, la Moravia.

Il loro giorno dei giorni è il 24 luglio 1952, stadio di Helsinki. La finale dei 5000 è lanciata su ritmi violenti dal tedesco Schade, rilevato di quando in quando da Zatopek. La corsa vive il suo momento più alto e drammatico dopo la campana: l’attacco improvviso del giovane britannico Chris Chataway sorprende Emil che perde cinque metri riuscendo però a tornare sotto all’ultima curva. A quel punto Chataway cade inciampando nel cordolo, Emil assesta lo strattone decisivo, seguito a poco più di un metro dall’amico ed eterno rivale Mimoun e da Schade che trascina a tempi di rilievo. Un finale così drammatico non si vedeva ai Giochi dal tempo del confronto, a Stoccolma 1912, tra Kolehmainen e Jean Bouin, il piccolo e robusto francese caduto sul fronte occidentale nel primo autunno di guerra. Ma con un elemento nuovo: il 58:1 del ceco sull’ultimo giro. All’epoca, ritmo vertiginoso. Era nato un nuovo mezzofondo e il fenomeno aveva visto la luce proprio nella terra dei grandi iniziatori, nei Giochi che avevano avuto il vecchio Nurmi come ultimo tedoforo. Esiste una foto di questa finale indimenticabile, drammatica come un quadro storico, spietata come sanno esserlo solo le grandi istantanee: tutti e tre gli uomini che si stanno giocando le medaglie hanno la bocca spalancata e Chataway caduto è una macchia bianca che appena si intuisce.

A questo punto entra in scena Dana che si sta dirigendo verso la pedana del giavellotto. “Bella medaglia – dice al marito – dammela, mi porterà fortuna”.

Batte la favorita, la sovietica Aleksandra Chudina e spinge il suo record e quello olimpico a 50,47. In una breve parentesi, due titoli alla Cecoslovacchia o meglio, alla famiglia Zatopek. Una collezione unica, ineguagliabile: Emil aveva già vinto i 10000, e tre giorni dopo, il 27…

Dana, stretta in un modesto impermeabiluccio (un’estate agra e fredda fu quella offerta da Suomi) sta per stampare un bacio sulla bocca dell’uomo cavallo, dell’uomo locomotiva che ha deciso di correre anche la maratona, la sua prima maratona, e se lui corre è per vincere, per ricevere dai 60.000 la scansione ammirata del suo nome: “Za-to-pek, Za-to-pek”. 2h23:03, due minuti e mezzo sull’argentino Reinaldo Gorno che aveva inutilmente tentato di rinverdire la tradizione tracciata da Juan Carlos Zabala e, quattro anni prima, da Delfo Cabrera. Quattro medaglie d’oro per il più gigantesco affare di famiglia della storia dell’atletica, dello sport.

Era ricordando quei momenti che Zatopek amava regalare un ingenuo disegno: il suo autografo, il suo indirizzo di Praga, un omino che correva e una donnina che lo inseguiva brandendo un giavellotto. Il Socrate della corsa e la sua Santippe che, longeva 38enne, sarebbe salita sul podio di Roma, seconda, per dedicarsi in seguito a insegnare, in molti angoli del globo, l’arte del giavellotto e piantando i semi giusti per il rigoglio ceco. A Dana bastò un’occhiata per capire che quel ragazzo aveva stoffa: era Jan Zelezny.

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