Una storia al giorno

07 Gennaio 2014

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

7 gennaio. Oggi è la giornata del tricolore, nata nel 1996, giusto in tempo per celebrare il primo sventolio di una bandiera bianca, rossa e verde: capitò a Reggio Emilia nel 1797, quando i palpiti e le idee della Rivoluzione francese erano freschi e forti, non ancora soffocati dall’imperialismo di Bonaparte. Sarà un caso ma è proprio da quelle parti – Castelnovo di Sotto – e da una famiglia che pare uscita dai fotogrammi di Novecento che arriva Stefano Baldini che quella bandiera la agitò e la fece agitare in uno dei giorni più emozionanti attraversati nella nostra vita: il 29 agosto 2004. Tra otto mesi sarà bene festeggiare adeguatamente quanto accadde sul far di quella sera, ad Atene.

La prima cosa che viene in mente di quel giorno è il caldo che picchiava duro sulla pietra bianca del Panathinaiko a ferro di cavallo, con quella ridicola pistina nera. Andammo presto - il plurale non è maiestatis, figurarsi, ma è riferito al piccolo gruppo di cui facevamo parte io, Guido Alessandrini e Giorgio Barberis, vecchi amici – perché la sala stampa era molto piccola e si trattava di prender posto e difenderlo e perché, dalle parole che Stefano aveva offerto due giorni, ci eravamo fatti l’idea che l’ultimo giorno dei Giochi avrebbe offerto qualcosa di molto pericoloso per il nostro cuore carico d’amore e per quello di Luciano Gigliotti. E intanto le chiappe bollivano su quelle pietre calcaree, smussate, irregolari, piene di buchi. Una specie di antico teatro dove stava per andare in scena qualcosa di meravigliosamente drammatico, con catarsi finale. Quel che uno si attende dalla Grecia.

Collegamento con la partenza, a Maratona, vicino al tumulo dei caduti della battaglia: panoramica sugli ultimi preparativi, sui timidi allunghi, sugli esercizi di scioglimento. “Se non vince Stefano, vorrei vincesse Paul”, mi scappa di dire. Tergat è intelligente, simpatico e avrebbe potuto vincere molto di più non avesse trovato lo spietato Gebre sulla sua strada. Partenza, finalmente, avvio prudente, inizio della lunga salita che porta verso lo scollinamento verso la città sterminata, il tratto che deve essere costato caro a Filippide o Fidippide. Il messaggero, insomma, quello che disse Nike senza prendere il becco di una dracma dallo sponsor.

A quel punto il tabellone si guasta e il quadernino degli appunti rimane desolatamente vuoto: ricomincia a riempirsi quando arriva qualche notizia via radio. C’è il tempo per guardarsi attorno: lo stadio si è riempito ed è un mosaico di bandiere: ce ne sono di ogni parte del mondo perché quelli che sono venuti, fanno il tifo per la maratona, una cosa universale, bellissima, umana. Fa riflettere, commuove, prepara a quel che ci aspetta.

E’ l’imbrunire, il tabellone riprende a funzionare e offre un uomo solo al comando, Vanderlei de Lima, il ragazzo venuto dal Brasile. Ha un bel margine, un netto margine. Calma e sangue freddo: la maratona comincia dopo il 35° chilometro, ci hanno insegnato quando eravamo apprendisti dell’atletica. E le notizie che arrivano – immagini, pochine – sono incoraggianti: Stefano, come si dice in questi casi, ha lanciato il serrate, divora la strada e il vantaggio di Vanderlei che, poveretto, trova sul suo cammino l’ex-prete, irlandese e matto, che aveva già dato prova di sé in F1. Il brasiliano sbanda, è sbigottito: fosse un trottatore sarebbe in piena rottura. Stefano ha l’assetto, di corsa e di testa, del natural born killer. Ora è solo nel buio che incombe: laggiù, oltre lo Zappeion, la luce forte che inonda il Panathinaiko, diventato un’onda lunga di bandiere. Anche italiane. Il resto è una storia che tutti conoscete. La corsa, in macchina questa volta, dal centro allo stadio olimpico per l’ultima premiazione prima della cerimonia di chiusura. Bandiera bianco, rosso e verde. Per chi viene dalla città del tricolore, uno dei tanti massimi raggiunti in un giorno di sogno e realtà.

Giorgio Cimbrico

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