Una storia al giorno

18 Dicembre 2013

Personaggi e vicende dell'atletica di sempre

18 dicembre. Dodici giorni fa, nel luogo più conveniente (il salone d’onore del Coni) di Bruno Zauli è stato ricordato il mezzo secolo della morte. Qui e ora non resta che celebrarne la nascita, avvenuta ad Ancona nel 1902. La sua vicinanza all’atletica, così contigua all’amore, può essere colta nella dolorosa testimonianza di Giosuè Poli, opportunamente riesumata sull’ultimo annuario della Federazione, accanto alla ricca e puntuale ricostruzione della sua vita, delle sue opere, da parte di Augusto Frasca, sempre più calato nella dimensione dello storico rigoroso e, di pari passo, investito della missione di una ricerca del tempo perduto e mai più ritrovato.   

Bruno Zauli morì all’hotel Bastiani di Grosseto, ed è inutile proporre uno scontato rinvio letterario che porta a uno dei capolavori italiani del Novecento: Zauli non aveva mai aspettato in ignavia i Tartari, li aveva prevenuti, aveva invaso i loro deserti, aveva galoppato. Aveva 60 anni ma era riuscito a triplicare la quantità della sabbia che scorreva nella sua clessidra. In Francia uno come lui è chiamato, con stima e ammirazione, grand commis, gran commesso. Un uomo di Stato (maiuscolo) in uno stato (minuscolo) che ha sempre evitato di trattare lo sport in modo ufficiale. E, visto il lascito di Zauli, è stato meglio così.

Un uomo dell’atletica, ma una volta tanto è bene parlarne anche come uomo di calcio, un “prestito” prezioso: capitò quando Giulio Onesti (un altro fuoriclasse: la matrice che aveva creato quegli uomini è stata spezzata e buttata via) gli affidò l’incarico di riorganizzare un mondo uscito con le ossa a pezzi dalla battaglia di Belfast: Italia fuori dai Mondiali del ’58, tormentata da quegli oriundi sotterrati dai fischi degli ululanti tifosi nordirlandesi, incapace di darsi le riforme, di stabilire il confine giusto e etico tra professionismo e dilettantismo. Il commissario Zauli fece quel che il presidente Barassi aveva provato ad abbozzare, scrisse e trasformò in disposizione, in regolamento, quel che era richiesto in quel momento storico.

Era il suo stile: affrontava i problemi, perseguiva progetti, risolveva. Era diverso lui, era diverso anche il Paese. Quando introdusse l’atletica nelle scuole dando vita ai gruppi sportivi, il Corriere dello Sport dedicò alla svolta una gran parte della prima pagina. Altri tempi, altri giornali, altri dirigenti, altre aspirazioni. L’atletica era la base di tutto, era anche il mondo da cui Zauli proveniva, era stato il terreno delle sue prime responsabilità di spessore assoluto, da presidente della Federazione nel periodo ispido del primo dopoguerra: se l’Italia sconfitta partecipò agli Europei di Oslo e, due anni dopo, ai Giochi di Londra, il merito è suo.

Da segretario del Coni, Zauli fece quel che più tardi il generale de Gaulle realizzò in Francia: una pista di atletica in ogni capoluogo di provincia. i campi scuola sono un’altra opera sua e sono ancora lì, un testamento solido, un lascito paragonabile alle borse di studio imperiali di Cecil Rhodes. Un pianificatore e un inventore: la Coppa Europa che prese il suo nome aveva uno spirito semplice e una formula appassionante. L’atletica era uno sport individuale e lui seppe trasformarlo in uno scontro a squadre, creando un evento capace, in tempi meno inflazionati di appuntamenti, di dare il senso a un’annata. I suoi eredi (tra molte virgolette) sono riusciti a demolire quel confronto, a mettere in scena un campionato europeo a squadre che poco ha a che fare con quella magnifica idea. Per fortuna hanno avuto il buon gusto di cancellare il suo nome che etichettava l’evento. Era l‘uomo dell’atletica, dello sport olimpico, dello sport come costume di vita, come strumento per vivere meglio. Non un profeta, solo un uomo che viveva animato dall’impegno e che divorò il tempo breve che gli venne concesso.

Giorgio Cimbrico

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